Come sono cambiate le sponsorizzazioni in Serie A

Dai fornitori di divise alla domotica di massa, fino al settore alimentare, automobilistico e da ultimo i servizi di scommesse sportive: il mutamento (o l’involuzione) della presenza dei marchi in campo, ma anche sul nome dello stesso stadio

Via le fotocopiatrici, avanti con le navi da crociera. Basta elettrodomestici di Stato, avanti con le multinazionali della scommessa o della gig economy. Romantico vestire l’insegna dell’olio prodotto sotto casa, ma dall’Indonesia vogliono comprare una jersey se c’è un brand riconoscibile in tutto il mondo. Come sia cambiata la società italiana ed europea lo dice il “paniere ISTAT” del calcio italiano: ovvero le scelte degli sponsor che negli ultimi quarant’anni hanno deciso di investire nelle società di Serie A.

La pratica è stata introdotta agli albori degli anni Ottanta, quando qualcuno tentava di aggirare le norme che prevedevano solo la comparsa dello sponsor tecnico, ovvero l’azienda che fornisce le divise di gioco: già prima il Vicenza per tutti era Lanerossi, dal grande marchio cittadino che lo finanziava. Ma non sempre le abbinate andavano bene: la pasta Ponte a Perugia, voluta per pagare Paolo Rossi, retrocesse per il primo scandalo delle scommesse dopo aver finto di produrre anche tute e magliette da calcio.

Ovviando al fai-da-te di straforo, la Federazione aprì le porte: e fu il boom della domotica di massa. Fotocopiatrici Mita e Sweda, frigoriferi Ariston e lavatrici Castor, radio Phonola e macchine fotografiche Canon, per stampare con Agfacolor la facevano da padroni. C’era addirittura l’editoria, con il primo Milan di Silvio Berlusconi che spingeva gli Oscar Mondadori; da italiani, ovviamente tanta alimentazione da Cirio a Santal, da Misura a Barilla, e meteore artigianali di provincia (latte Soresina, olio San Giorgio).

Quasi tutti i brand erano italiani, a eccezione delle auto Opel in viola: una fedeltà, quella della casa motoristica, continuata nel tempo attraverso il Milan dominante degli anni Novanta. Anni segnati dal dominio in-house dei rispettivi proprietari: Mediolanum, Pirelli, ERG, Parmalat e Cirio con tutto quello che hanno significato queste ultime due nella cronaca nera dei fallimenti, riverberati anche nel calcio di Parma e Lazio in via di repentino o progressivo ridimensionamento.

Cambia il secolo e accelera la transizione: nelle maglie della Juve 2004-2005 c’è Sky, cioè il mondo nuovo, il futuro della fruizione pay. Anche gli enti locali intuiscono la potenzialità del veicolo pubblicitario, e si lanciano a Lecce col marchio Salento, così come a Cagliari dove la squadra rossoblu diventa “football commission” per la Regione Sardegna, i suoi prodotti caseari e l’artigianato.

Dieci anni più tardi comincia l’involuzione: esplode la Premier League, girano meno soldi per i diritti televisivi, quindi Palermo, Roma, Fiorentina e Lazio provano a fare senza sponsor. Non è romanticismo, ma riflusso: in qualche caso si recupera in extremis, ovviamente al ribasso e accettando quasi il primo che passa. A Bergamo arriva il vicino gas svizzero, ma ora sì che comandano le auto: Jeep (Juve), Dacia (Udinese), e le immancabili gomme Pirelli. Si oscilla tra l’immenso e il piccolo-ma-bello: il Milan è globalizzato Emirates, si affaccia il Sassuolo casalingo di Mapei e i pandori Paluani “sono” invece il Chievo, di nome e di fatto.

Oggi gli stranieri comprano direttamente le società, e i brand ottengono il diritto di nominare gli stadi. Se non sono i controversi bitcoin, sono le imprese di scommesse a segnare questo periodo: Betsson per la scudettata Inter, Betitaly a Lecce. Ma c’è anche il Como delle applicazioni Uber, e la Roma che guarda alle nuove potenze asiatiche tramite Riyadh Season. Incuriosisce per converso il Venezia identitario che sceglie e si fa scegliere da Cynar Spritz, al pari dell’Udinese che promuove la Regione Friuli Venezia Giulia a statuto speciale.

L’acqua Lete, molto promossa in tv, sale a Bergamo, mentre nelle maglie del Bologna in Champions League si leggerà il nome del presidente Saputo. Anche Rocco Commisso fa da sé e piazza la sua Mediacom nelle maglie viola, ma non c’è un filo conduttore se non i trasporti: il Napoli naviga MSC, la Torino granata si muove ancora in Suzuki (non il portiere del Parma, idolo dei fantallenatori) e il Milan rimane a volare emiratino. Ora ci sono anche gli sponsor di manica, di coccige, d’allenamento: è la coda lunga, ai margini del grande spettacolo.

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