Una madre incontra dopo 7 anni gli assassini di suo figlio. L’ultimo libro di Colum McCann

Lo scrittore irlandese racconta l’umanità smisurata della madre del giornalista americano James Foley, ucciso nel 2014 dall’Isis

Entrare con il solo aiuto delle parole in un luogo proibito del Tempo e ricavarne una storia, di quelle che non si osano raccontare. A questo scopo prendere una delle immagini più efferate di sempre, per aggiungere un’altra verità, più viscerale, “Qualcosa di afferrabile, qualcosa verso cui tendere”. L’immagine è quella della decapitazione del giornalista americano James (Jim) Foley ad opera del quartetto di Isis noto come “Beatles”, Siria, agosto del 2014. Dopo due anni di prigionia e torture, il cappuccio nero, la tuta arancione, la lama che taglia la gola, fino all’epilogo del video con la testa appoggiata sulla schiena del giornalista. Il deserto attorno. Lo scrittore che ha affrontato l’orrore è Colum McCann, irlandese naturalizzato statunitense; tante incursioni letterarie in destini traumatici, tra personaggi fittizi e reali (dalla zingara Zoli ai protagonisti di Lascia che il mondo giri e Apeirogon). In Una madre (Feltrinelli, traduzione di Marinella Magrì) dà voce a Diane, la madre di Foley: presenzia ai suoi incontri con un “Beatle”, catturato, confesso e condannato all’ergastolo negli Stati Uniti; è Alexanda Kotey, ex cittadino britannico.

“Puoi chiamarmi Diane”: con questa offerta all’essere umano più lontano da lei sulla Terra, si apre la snervante partita a scacchi tra due sconfitti; chiusi per giorni in una stanza, riaffrontano gesti, dettagli, conseguenze, scoprono l’effetto degli anni su ideologia, furore, pentimento. “E’ il 2021, suo figlio se n’è andato da sette anni, e questa mattina lei incontrerà uno dei suoi assassini”. Sospetti da parte di entrambi e domande senza risposta: “Come onorare questo cuore ferito? Come guardare quell’uomo negli occhi?”. Fino all’assurdo: “L’uomo accusato di complicità nell’uccisione di suo figlio le sta mostrando le foto delle proprie figlie, vive”.

L’umanità smisurata di una madre sottrae l’assassino all’abisso che porta in sé e che lo inghiottirà. Anche lui non vedrà più moglie e figli, perfino il suo lutto trova spazio: “Difficile credere che l’uomo che ha torturato suo figlio stia singhiozzando a poco più di un metro da lei. Difficile spiegare che molto probabilmente non si tratta di una commedia”. Per la prima volta, da quando il 19 agosto 2014 è stata annunciata la morte di suo figlio, lei piange in pubblico. “Spero che un giorno potremo perdonarci a vicenda” dice all’improvviso a Kotey. E lui: “Non c’è ragione perché lei offra il suo perdono”.

All’immagine del figlio (insegnante, giornalista freelance, idealista, un buono, troppo, il primo di cinque fratelli) profanato, la madre deve accostare quella di uno dei suoi assassini che, in carcere, è oggetto di ogni premura; è insopportabile, ma sa che “Sostenere quelle opinioni contraddittorie è l’essenza del momento. Forse è l’essenza di ogni momento”. Se perdono, fede e amore per la vita di Diane aiutano McCann a dimostrare ancora una volta come parola e sentimenti a nudo possano scavare una prospettiva, un’apertura anche dagli eventi più mostruosi, nel racconto del giorno in cui la madre scopre la sorte di Jim, non c’è scampo. E’ per sempre Storia.

Diane riceve una telefonata da una giornalista: le chiede se aveva visto un tweet. Singhiozza. Riaggancia. Altre telefonate. “Fissai il telefono. Fissai il lavello della cucina. Nel rubinetto si formò una goccia. La vidi chiara come la luce. Restò un momento in bilico poi precipitò (…) Il tempo non si limitò a fermarsi: il tempo svanì completamente dal tempo. Lì c’era mio figlio – o qualcuno che assomigliava a mio figlio – con la testa insanguinata posata sulla schiena”.

L’idea di aiutare la madre a raccontare la propria versione, è venuta a Colum McCann dopo aver visto su un giornale una vecchia foto di Jim intento a leggere Lascia che il mondo giri.

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