Capitani nella tormenta, la Roma e l’eterna maledizione dell’addio. Una cronistoria

Storie d’amore che divorano i propri eroi. Da Ferraris a Totti, fino a De Rossi: la Roma consuma i suoi capitani con intensità epica. Parabole fatte di successi e sacrifici e poi concluse nel modo più doloroso. Per la squadra, ma soprattutto per i tifosi

L’intensità di una storia d’amore si misura dalla ferocia con cui si consuma il distacco. O almeno così giurano i romantici. Una regola non scritta che nella capitale è diventata ormai consuetudine, stella cometa in grado di guidare verso destinazioni impreviste e imprevedibili. Tanto che la Roma sembra essere ormai intrappolata in un quadro di Goya, “Saturno che divora i suoi figli”. Perché nessuno è stato in grado di annacquare l’affetto con il risentimento come il club giallorosso. È una tradizione che va avanti ormai da novant’anni. Con un’intensità che sembra crescere di volta in volta. L’incipit di questa storia viene scritto nel 1934, quando il calcio era ancora un rito collettivo, una fede non intaccata dallo spettacolo. Attilio Ferraris IV, uno dei vessilli della Roma di Campo Testaccio, quello che riuniva i compagni a centrocampo e li faceva ripetere il mantra “Chi da’ ‘a lotta desiste fa ‘na fine morto triste, chi desiste da’ ‘a lotta è ‘n gran fijo de ‘na mignotta” arriva in ritardo a una partita. Per l’ennesima volta. Il presidente Sacerdoti, che stravede per lui, non ne può più e lo mette fuori rosa.

A giugno Attilio vince il campionato del Mondo con l’Italia. Poi succede l’impensabile. Perché il simbolo di Roma e della Roma viene ceduto alla Lazio. Lo psicodramma testaccino è enorme. Nel primo derby dell’anno i tifosi giallorossi non fanno altro che fischiare il loro condottiero diventato nemico. “Venduto! Venduto!” urlano dagli spalti. “Comprato! Comprato!” rispondono gli altri. È una scena surreale. Tanto che Fulvio Bernardini si avvicina all’amico e lo bacia platealmente sulla fronte. È un addio doloroso e rumoroso, esattamente il contrario di quello che si consumerà mezzo secolo più tardi. Il 30 maggio del 1984 la Roma si gioca la Coppa dei Campioni. In casa. Contro il Liverpool. È una data che diventa mito fondante di un certo tipo di romanismo. Quello del “Mai una gioia”, quello del “Voglia di stringersi un po’”. Ma è anche una notte che scava nel petto di tifosi e giocatori. Quella sconfitta assume i contorni del poema epico, del racconto orale da tramandare alle generazioni future. La città smette di ridere.

Per settimane. Viola chiama in panchina Sven Goran Eriksson, il profeta di un calcio tutto nuovo e scintillante. Ma per ricostruire, a volte, è necessario spargere il sale sulle macerie. Il mister chiede la cessione di Di Bartolomei, uno che della Roma era capitano, manifesto e sentimento. Ago va via in un silenzio assordante. Poi dal ritiro del Milan a Brunico dice: “Per me è un passo avanti: avrò stimoli nuovi e un club storicamente grande. Dov’ero ho dato e ricevuto molto”. Non dice a Roma. Dice dov’ero. Sono parole che fanno male ma a cui nessuno crede. Poi alla quinta giornata, nella sua nuova casa di San Siro, Ago porta in vantaggio il Milan contro la “sua” Roma. Ed esulta. Nel 1994 la storia si ripete in modo sinistro. Giuseppe Giannini, per oltre dieci anni Principe di una squadra impantanata a metà strada fra quella di Falcão e di Totti, si presenta sul dischetto nel derby contro la Lazio. La Roma sta perdendo per 1-0. E ha appena un punto di vantaggio sulla zona retrocessione. Giannini calcia in diagonale verso sinistra. Marchegiani para. Il risultato non cambierà più. I giallorossi sono a un passo dall’inferno. A fine partita Franco Sensi, neo proprietario del club, sentenzia: “Chi non è capace di segnare un rigore nel derby non è degno di indossare questa maglia”. È una frase che crea una frattura insanabile. Giannini resta ancora due anni a Roma. Da sopportato. L’ultima stagione è un incubo. In campo il Principe rende come un servo della gleba. È impreciso. È nervoso. È frustrato. Sensi gli lancia un’altra frecciatina. “Il suo procuratore, Zavaglia, mi ha detto che Giannini si arrabbia con le figlie e la moglie per delle stupidaggini – racconta – Il disagio del giocatore, ripeto, in questo momento è evidente”.

A fine stagione l’addio è inevitabile. Ma ormai l’affetto è intaccato dal risentimento. Nel maggio del 2000 Giannini saluta il pallone. All’Olimpico gioca una selezione di campioni che ha giocato con Giannini nella Roma e una che ha giocato con il Principe a Italia ’90. È un addio da incubo per una carriera da favola. Durante l’intervallo migliaia di tifosi si riversano in campo. Smontano il campo, le porte, le panchine. La partita di commiato finisce lì. Con gli occhi bagnati e la rabbia che serra le mascelle. “Non doveva finire così, ma con qualcosa di meglio” dice il Principe. Come se esistesse davvero un modo sensato per mettere fine a una storia d’amore. L’addio di Totti e i suoi contrasti con Spalletti sono diventati filone letterario, storia buona per il piccolo schermo. Mesi pesanti, fatti di silenzi, di interviste, di frecciatine della moglie del capitano all’allenatore, definito “piccolo uomo”, di ingressi in campo negati per impedire standing ovation. La fascia di capitano della Roma è diventata così come l’anello bramato da Sauron. Qualcosa di attraente e scintillante, capace di spolpare chi lo indossa. È stato così anche per Florenzi. Capitano della Roma per meriti geografici più che per temperamento. Quello che Sabatini aveva definito il “nuovo Dani Alves” resterà schiacciato sotto il peso delle responsabilità e delle operazioni alle ginocchia. Nel 2019 Totti parla dei nuovi romani e romanisti in squadra.

E le sue parole sono macigni. “Non ho sentito Florenzi”, dice. “Faccio i complimenti a Lorenzo” dice riferendosi a Pellegrini. Florenzi verrà ceduto l’anno successivo. “Alla Roma mi hanno detto che non servivano più eroi” dirà. Così da qualche anno la fascia è passata a Pellegrini. E il sortilegio sembra aver attecchito di nuovo. I tifosi gli rimproverano continuamente le sue prestazioni altalenanti. E dopo che Mourinho ha lasciato nel suo armadietto l’anello che i giocatori gli avevano regalato dopo la vittoria della Conference, Lorenzo è diventato il divoratore di mondi, il pensionatore di allenatori. D’altra parte mercoledì è toccato a Daniele De Rossi, l’uomo che si rammaricava di avere solo una carriera da dedicare alla Roma, esonerato dopo 4 partite nello stupore generale. Capitan futuro è diventato passato prossimo in una mattina di settembre. L’ennesimo sacrificio in una città che non fa altro che cannibailizzare i suoi figli prediletti.

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