Alluvione in Emilia-Romagna: servono soluzioni, non solo ricostruzione

Non è vero che nulla si è fatto nell’anno e mezzo trascorso dall’ultima alluvione nella regione. Abbiamo imparato a gestire l’emergenza, ma ora serve una politica che guidi l’adattamento del territorio. Non possiamo più tornare al passato. Una discussione urgente

Nel maggio del 2023 la Romagna è stata investita da una valanga d’acqua. Oggi, nel settembre del 2024, è successo di nuovo. Boris, il ciclone, si è formato più di una settimana fa sulle Alpi nord-orientali, si è spostato verso est trascinando con sé aria carica di acqua evaporata da un Mediterraneo caldissimo. Ha rovesciato tra i 200 e i 350 mm su Austria, Repubblica Ceca, e Romania, uccidendo oltre venti persone. Poi si è girato, ed è venuto verso di noi. Le previsioni parlavano di circa 100 millimeteri d’acqua sull’Emilia-Romagna orientale. Ne sono scesi fino 250 millimetri, comparabile agli eventi dell’anno scorso. E abbiamo dovuto affrontare l’emergenza. Di nuovo.

Sono passata 16 mesi. Non è vero che nulla si è fatto in questo anno e mezzo. Le amministrazioni a tutti i livelli hanno fatto esperienza. Sapevano cosa aspettarsi. Cabine di regia comunali e regionali hanno permesso una risposta coordinata. La protezione civile ha funzionato. Persone evacuate senza grandi esitazioni hanno garantito la sicurezza fisica. La consapevolezza salva le vite. Ci sono state meno frane, anche se è presto per fare il conto dei danni. E poi gli argini hanno retto meglio e l’uso del reticolo secondario per facilitare il deflusso è stato più efficace, anche se in alcuni casi, come a Faenza, si sono ripetute le esondazioni, per il dolore degli alluvionati.

Lo abbiamo detto mille volte. La statistica meteoclimatica sta cambiando. Ognuna di queste alluvioni doveva essere un’esperienza unica nella vita. E invece sono successe per due anni di seguito, con contorno di siccità senza precedenti in altre parti del paese. È ormai evidente che le infrastrutture e le abitudini che avevamo sviluppato il secolo scorso, e che ci hanno permesso di trasformare il territorio italiano nella piattaforma della sua industrializzazione, erano dimensionate su un clima più benigno. È quindi chiaro che non sono adeguate a ciò che ci si aspetta e vanno cambiate.

Sappiamo cosa fare? Tecnicamente, sì. Ma non lo faremo mai se non usciamo da un equivoco nel quale sembriamo essere caduti. Infatti, si parla sempre di ricostruzione, ma non è di ricostruzione — di portare tutto come prima — che dobbiamo occuparci. Si tratta invece di adattare il territorio, per portarlo in un regime diverso. Dobbiamo decidere quali rischi tollerare e quali gestire, quali territori trasformare e quali proteggere, come allocare investimenti per sostenere attività economiche e quali scelte offrono opportunità migliori per il futuro. È una discussione urgente.

La macchina amministrativa non sembra essere in grado, da sola, di intraprendere questo percorso in tempi rapidi. Dopo i primi mesi di interventi in Emilia-Romagna, l’autorità di bacino ha presentato il proprio “piano speciale”, finalizzandolo a giugno. Include infrastrutture necessarie, come le famose casse di espansione volte a fare posto ai fiumi e ridurre la pressione di eventuali piene. A oggi le autorizzazioni non sono ancora arrivate, però. Gli uffici tecnici hanno poche risorse e sono spesso bloccati dal peso delle decisioni che sono chiamati a prendere. E quando poi decidono, la competizione tra enti e istituzioni spesso blocca tutto. È una storia che si ripete a fronte di tante emergenze di natura climatica in tutta Italia, dalla Sicilia alla Romagna.

Serve una guida che superi i colli di bottiglia, che accolga la gestione del futuro del territorio come una vera priorità politica, e si intesti la responsabilità di decidere cosa fare. Serve la politica, insomma. L’Italia si trova in una condizione singolare. Un paese avanzato, nel mezzo del Mediterraneo, che, tra alluvioni e siccità, affronta cambiamenti territoriali più pesanti che nel resto del continente. È ormai certo che il pianeta ci solleciterà con crescente intensità, ponendoci una domanda: che economia territoriale vogliamo a fronte delle condizioni materiali che cambiano? Se non si fa della risposta un tema attorno al quale costruire il futuro del paese, non ne verremo mai a capo.

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