Totò Schillaci, l’uragano calcistico di un’estate italiana

A Italia 90 divenne il passepartout ruspante e popolare dell’italianità nel mondo. Ma dopo quei lampi la sua carriera scemò. Forse quel mese dei Mondiali è stato davvero un Truman Show vissuto insieme a tutto il paese

Di tutto rimane un poco, scriveva Carlos Drummond de Andrade. Di Salvatore Schillaci resteranno sempre gli occhi sgranati per un rigore negato, l’anno dei Mondiali del Novanta, che proprio celebrandosi nel 1990 nominarono l’anno: Salvo, o Turiddu più che Totò, è stato l’uragano di una sola estate, annunciato dalla buriana di una sola stagione. Prima di diventare il nuovo passepartout ruspante e popolare dell’italianità nel mondo, la Juventus – irretita dal calcio che cambia – per resistere sceglie lui e Pierluigi Casiraghi dalla Serie B, dove il cugino dell’allora più quotato Maurizio viene lanciato da Zdenĕk Zeman a imperversare nelle difese avversarie con la maglia del Messina. Il suo italiano stentato fa tenerezza, ma è lui e non altri a segnare a raffica già all’inizio del campionato 1989-90: doppietta a Verona la domenica in cui muore Gaetano Scirea, la maglia numero 11 stampata dall’house organ Hurrà Juventus, ante litteram rispetto al merchandising odierno. Di goal a fine stagione ne avrà segnati quindici, validi per vincere la coppa Italia e la coppa UEFA dopo anni di “juvetta”: il commissario tecnico della Nazionale, il bonario Azeglio Vicini, non lo può ignorare e lo testa nell’amichevole premondiale in Svizzera, decidendo di convocarlo per l’appuntamento più atteso e preparato da un’intera nazione.

Schillaci non parte titolare, al centro dell’attacco ci sono il fidanzato d’Italia, Gianluca Vialli (un altro 1964, un altro che già non c’è più) e Andrea Carnevale, il quale segnava tanto grazie a Diego Maradona. Ma serve Salvo per togliere le castagne dal fuoco a dieci minuti dalla fine nell’esordio contro l’Austria: entrato da poco a rilevare il napoletano, lui alto 1.73 salta meglio dei due corazzieri del Kaiser, e segna di testa dando avvio al mese più incredibile che si potesse immaginare. Contro gli Stati Uniti il bomber siciliano parte dalla panchina e non replica, ma la svolta arriva nel terzo match del girone, avversaria la Repubblica Ceca: Turiddu titolare va in goal dopo dieci minuti, la coppia con Roberto Baggio fa scintille e non si ferma più, manco nella finale per il terzo e quarto posto. E sono processioni notturne sotto la casa dei genitori nel quartiere CEP, uno di quelli difficili a Palermo; la birra Messina ne fa subito l’uomo immagine nei cartelloni pubblicitari lungo le strade sterrate di Sicilia, trent’anni dopo Paolo Virzì immortala quei trenta giorni di estasi collettiva nel suo “Notti magiche”.

Come tutti gli uragani estivi, Salvatore -ormai Totò- deve fare i conti con la risacca: nel suo caso, foriera d’oro e d’immagine. Alla Juve arriva proprio Baggio, e i due si trovano a doverla guidare in campo sotto le indicazioni del nuovo profeta, Gigi Maifredi: però non funzionerà. Il centravanti stenta, segna poco (giusto una tripletta alla Roma e poco più), non rientra negli schemi, appare anche svuotato fisicamente. Certo non c’è più Zoff a infondere armonia nel gruppo, ma viene meno anche la fame: Schillaci è tornato a “rubare le gomme” nei cori dei tifosi, che non gli perdonano niente. Decide di andare all’Inter per riaversi, ma anche lì sono solo lampi; in Giappone, dove vivono di mito, scommettono su di lui, e torna la star che segna a raffica per il Júbilo Iwata, prima di ritirarsi dal pallone. Dove non rientra né quale allenatore, né da dirigente. Per rimanere nell’onda, però, le tenta tutte: dopo il naufragio del suo chiacchierato matrimonio con Rita Bonaccorso arrivano il trapianto esagerato dei capelli e i reality show televisivi, anche questi senza troppa fortuna. E allo stesso modo dei dimenticabili protagonisti dei vecchi reality, fa di tutto per riciclarsi nei nuovi: non è stato forse un Truman show, quello che il cittadino Salvatore Schillaci da Palermo, classe 1964, ha vissuto per un mese assieme a tutta l’Italia, a tutto il mondo?

La parola fine, però, stavolta non la scrive il portiere Sergio Goycochea, né i troppi minuti di recupero dell’arbitro Michel Vautrot contro l’Argentina, e nemmeno il rigore segnato da Maradona col sorriso nel suo stadio. Totò abbandona la scena e va a sedersi nell’ultima panchina: come Luca Vialli, come Pablito Rossi, è la maledizione dei goleador giovani, degli uragani italiani.

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