Le ipocrisie che Meloni e Confindustria devono superare per un vero patto sulla produttività

Alla sua prima manifestazione pubblica, Emanuele Orsini incassa i consensi della premier: dalle critiche al Green deal all’impegno comune verso la crescita. Ma per “farci rincorrere” dagli altri paesi serve colmare un divario competitivo sostanzioso e puntare sulla tecnologia, non basta evocare il rapporto Draghi

Tra impegni comuni e apprezzamenti reciproci la Confindustria guidata da Emanuele Orsini e il governo presieduto da Giorgia Meloni hanno mostrato una corrispondenza di amorosi sensi dal palco dell’Auditorium. Per entrambi era un debutto ed è stato salutato da scroscianti applausi. Insieme sono partiti lancia in resta contro il Green deal: “Politiche ambientali autolesioniste e autoreferenziali” le ha definite il presidente degli industriali privati. E la capo del governo s’è impegnata a battersi per farle cambiare in Europa. In realtà quel Green deal fa già parte del passato, lo scrive il rapporto Draghi, lo ha fatto capire chiaramente Ursula von der Leyen. Una revisione, anzi una brusca frenata, è ormai scontata. Il limite del 2035 per il motore endotermico slitta. Orsini vuole che sia deciso subito, forse ci vorrà un po’ di tempo. Si tratta di fissare bene i modi per non creare colpi di coda.



S’è messa in moto una filiera delle energie rinnovabili (anche in Italia dove ci sono grandi operatori privati e pubblici) che non può essere spezzata, tanto meno si può dire alle aziende che si stanno “decarbonizzando”, di fermarsi dopo aver investito miliardi. Comunque le intemerate sul Green deal hanno eccitato la platea. Ma a un osservatore meno passionale ha colpito soprattutto la sintonia su una questione controversa e tutt’altro che facile da affrontare: la produttività. “Una parola che suona quasi divisiva – ha detto Orsini – invece deve essere intesa come ricchezza del paese”. E ha ricordato che “nel periodo 1995-2022 la produttività del lavoro in Germania, rispetto all’Italia, è cresciuta di 23 punti”. Meloni ha rilanciato: “Aumentare la produttività è il prossimo obiettivo del governo”. Un’affermazione impegnativa. L’ha colta al volo il segretario della Cisl Luigi Sbarra che si è detto pronto a discutere con governo e Confindustria, fino a evocare un vero e proprio “patto sociale”.

La porta si è dischiusa anche con la Cgil di Maurizio Landini disponibile al confronto “sulle politiche industriali”. Orsini ha detto che “la Confindustria è aperta al dialogo” con il governo (la prossima settimana sulla manovra di bilancio) e con i sindacati ai quali ha fatto concessioni non formali. In polemica con il salario minimo per legge sostenuto dalla Cgil e dalla sinistra, ha difeso “il principio che il salario in tutte le sue componenti si stabilisce nei contratti, nazionali e aziendali, trattando con il sindacato” al quale ha proposto “un’azione comune per contrastare i troppi contratti siglati da soggetti di inadeguata rappresentanza”. Tutti, industriali, sindacati, governo, sembrano aver accettato che la politica di bilancio deve essere prudente, anzi severa. Secondo Meloni una crescita dell’un per cento “è a portata di mano”, ma le risorse restano scarse e non vanno gettate al vento.



Un tal coro polifonico non è privo di dissonanze. Il divario competitivo con la Germania non si colma in poco tempo, nemmeno con il rallentamento della congiuntura tedesca la quale, anzi, può far bene alla propaganda politica, ma fa male alle imprese che esportano. Orsini ha vantato giustamente il successo dell’export che colloca l’Italia al quarto posto al mondo (era al settimo prima del 2022, non ha mancato di ricordare Meloni), ma proprio la Germania resta il mercato numero uno. “Per troppi anni ci siamo accontentati di rincorrere gli altri. E’ il momento di farci rincorrere”, ha rilanciato la capo del governo. Intanto c’è quella distanza di 23 punti da ridurre accelerando la transizione, quella digitale in primo luogo perché in troppo poche aziende lavoratori, manager e proprietari sono in grado di usare bene le nuove tecnologie.

Difendere le filiere tradizionali come ha chiesto Orsini incassando l’appoggio di Giorgia Meloni, senza accettare una selezione e una concentrazione che aumenti la taglia delle imprese, significa restare nella “trappola delle medie tecnologie”, la malattia di cui soffre l’Europa e ancor di più l’Italia. Lo spiega il rapporto Draghi più volte ricordato oggi con riconoscimenti spesso di facciata. Sull’intelligenza artificiale è emersa una divergenza di fondo: “In Italia il dibattito sull’etica digitale rischia di diventare un grande freno, quando invece abbiamo l’esigenza di accelerare”, ha detto Orsini. Bisogna “governarla”, mettere l’IA sotto controllo, ha replicato invece Meloni ribadendo la sua posizione, prudente fino alla diffidenza, emersa nel G7 del marzo scorso. Si fa presto a dire produttività, il diavolo s’annida sempre nei dettagli.

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