Giorgio Vigolo, l’eremita romano delle lettere che piaceva ad Argan

Ettore Paratore e Pietro Cimatti hanno celebrato nelle loro pagine lo scrittore che “non ha mai fatto nulla se non durare in vita”

Una Roma notturna. Scurita dal passaggio del tempo. Trasognata e onirica. Una Roma di visione e di nebbia, incuneata nel senso della memoria. Una Roma labirintica, matassa di esperienze e di biografie e di antiche, splendenti bellezze e di rabbuiate, piccine miserie, come tra le pagine ambrate di Giorgio Manganelli. Ma qui non siamo al cospetto del Manga. La Roma di “Le notti romane”, che ai primi anni Sessanta si aggiudicherà il prestigioso premio Bagutta, è figlia della inventiva di Giorgio Vigolo. Autentico eremita delle lettere, per riprendere in parte l’icastica ma accuratissima definizione usata da Magda Vigilante per intitolare il suo saggio dedicato a Vigolo, “L’eremita di Roma” (Fermenti, 2010), presenza quasi fantasmatica e altrettanto quasi del tutto sconosciuta non dirò al grande pubblico ma proprio al pubblico, eccezion fatta per i cultori e gli specialisti della musica, della poesia e della letteratura. Vigolo nasce a Roma nel 1894. E con Roma manterrà per tutta la vita una forte connessione spirituale e poetica, fonte di ispirazione, di vertigini e di inquietudini.

Ettore Paratore leggerà tra le righe dell’opera di Vigolo quella “suggestiva ispirazione facilmente convertibile in visione universale del mondo che la città eterna sa infondere nei suoi figli privilegiati”. Esordisce nel 1923 con il volume di prose e poesie ‘romane’ “La città dell’anima”. Lettore attento e acuto di Rimbaud, che peraltro traduce, Campana, D’Annunzio, Leopardi, in seguito Hölderlin, affina il suo gusto e il suo sapere critico che per tutta la vita, in contrasto col gramo spirito tecno-specialistico e mono-settoriale dei tempi, sarà sempre poliedrico e caleidoscopico. Vigolo si afferma poi come uno dei massimi interpreti e studiosi del poeta della romanità, Giuseppe Gioacchino Belli, e negli anni Trenta con “Canto fermo” e “Il silenzio creato” torna splendidamente a utilizzare la fisionomia simbolica e materica di Roma come spazio di purissima creazione letteraria. Una città in cui geologicamente si affastellano pietra e vegetali, vedute a strapiombo e odori, suoni celestiali e latrati d’inferno, cieli cupi specchiati nel fondo dell’anima e di ossa macinate dal silenzioso, eppure così intensamente musicale, scorrere di tempo e polvere.

La poesia e la musica, la simbologia, sono per Vigolo anche veicolo privilegiato di avvicinamento a saperi religiosi e esoterici; frequenta, dietro presentazione di Arturo Onofri, il gruppo di Ur e legge Julius Evola, senza dubbio, come emerge dai frammenti che compongono gli “Ideari” vigoliani, almeno il volume evoliano “L’uomo come potenza”, uno studio sui tantra. Di Vigolo ebbero massima stima studiosi come Emilio Cecchi e Giacomo Debenedetti, e gli furono amici Piovene e Bobi Bazlen, nei duri anni del secondo dopoguerra. Collaborò con il Corriere della Sera, con il Mondo di Pannunzio, con Risorgimento liberale e la sua passione per la commistione di saperi vide perfetta summa nei suoi elzeviri musicali, i quali più che sfoggio di analisi critica del suono e delle composizioni furono deliziosa danza di congiunzione, quasi alchemica, tra la musica, la filosofia e la letteratura e la poesia più alte.

Il 14 febbraio 1979, Vigolo venne celebrato in Campidoglio con una cerimonia fortemente caldeggiata dall’allora sindaco, quando Roma aveva ancora dei sindaci, Giulio Carlo Argan. D’altronde la scelta di Vigolo di valorizzare Belli, che oggi potrebbe apparirci per un romano quasi semplice e lineare, semplice non fu per niente; anzi, essa fu frutto di un forte, caparbio innamoramento, anche questo ostile allo spirito dei tempi e delle mode letterarie. Altre opere romane di Vigolo sono oggi raccolte nel volume edito da Bompiani “Roma fantastica”, nel quale si rinviene il racconto lungo “La Virgilia” inizialmente pubblicato agli inizi degli anni Ottanta dietro interessamento di Pietro Cimatti. E proprio Cimatti, in concomitanza quasi con quella pubblicazione, scrisse di lui “un’intera sezione della sua inventività di maestro dell’elzeviro, del racconto visionario, ha mancato l’incontro con la distratta, fatua editoria maggiore. E Vigolo non ha mai fatto nulla, se non ‘durare in vita’, per contrastare quel metodo brigantesco di occupazione del presente culturale che ha canonizzato mediocri e santificato i capi mafiosi dell’ultima e penultima cosiddetta letteratura italiana”.

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