Carlo Verdone: “Sul set non si può più dire nulla. Così il politicamente corretto ha cambiato la commedia”

Da Un sacco bello a Vita da Carlo: com’è cambiata la sensibilità del pubblico dagli anni 80 a oggi. “Prima si potevano prendere in giro tic e mitomanie, oggi sembra che ci sia un tribunale dell’inquisizione”. Poi gli incontri con Sergio Leone, Ennio Morricone, Sordi e Proietti. Colloquio con l’attore e regista romano

Todi. In Piazza Del Popolo, nel cuore del centro storico, non c’è più un posto libero da diverse ore e sono migliaia le persone, sedute e in piedi, arrivate per Carlo Verdone, l’ospite più atteso nella serata conclusiva della quarta edizione dell’Umbria Cinema Festival. Il caldo “cafone” romano, come direbbe lui, è lontano non solo nel ricordo, visto che ci sono 11 gradi. Da oltre quarant’anni, il regista e attore tra i più amati d’Italia, fa ridere e riflettere con i suoi film (ne ha diretti 27). Ma qualcosa, racconta al Foglio, è cambiato. “Dal mio primo film, Un sacco bello, del 1980, è cambiato il modo di fare la commedia e di far ridere. Prima c’era una società che ci permetteva di individuare dei personaggi che poi si potevano prendere in giro grazie alla loro mitomania, ai tic, alla sbruffonaggine, al modo di vestire. Con il mio lavoro non ho fatto altro che interpretare me stesso e costruire personaggi sul pedinamento degli italiani. Oggi, invece, c’è un problema”.

Qual è?

“C’è una totale omologazione. Si pensi ai tatuaggi. Se li fanno tutti, giovani e adulti. Ma perché? Prima c’era più disponibilità ad ascoltare che oggi non c’è più. C’è più diffidenza e la gente s’è ‘ncarognita”.

Cosa le fa più paura?

“Il politicamente corretto”.

Perché?

“Perché ha creato dei problemi evidenti. È giusto rispettare le donne e non offendere le altre culture e minoranze – ci mancherebbe – ma adesso stiamo andando un pochino oltre. Mentre giravamo la quarta stagione di Vita da Carlo, ad esempio, ogni giorno facevamo uno stop di una ventina di minuti, perché veniva da me e da Valerio Vestoso, che mi ha aiutato a dirigere la serie, lo script supervisor per dirci che una cosa non si poteva dire e un’altra non si poteva fare o mostrare. Sembra che ci sia un tribunale dell’inquisizione che tagli l’autore. Si dimentica però che noi facciamo satira di costume. Dobbiamo avere il senso della misura, questo sì, ma il fatto è che le persone non sanno più contestualizzare. Alcune scene dei miei film oggi sarebbero impensabili”.

Quali?

“Quella di Gallo Cedrone, ad esempio, che zompa addosso alla donna del condominio, o quella di Compagni di scuola con il ragazzo sulla sedia a rotelle e tante altre che hanno caratterizzato il mio modo di fare cinema”

Meno male che l’ha fatto.

“Beh, il tribunale d’inquisizione non c’era (ride, ndr). Di recente ho saputo che cercavano per un film una Cleopatra di colore. Ma perché di colore? Chi l’ha detto che era egiziana? Molti non sanno che Cleopatra era la figlia di un generale di Alessandro Magno. Spesso si fanno degli errori storici spaventosi. Quindi, ecco, sul politicamente corretto sono d’accordo, ma per un settanta per cento non sono d’accordo affatto”.

Il prossimo 16 novembre, il giorno prima del suo compleanno, su Paramount+ andrà in onda la terza stagione di Vita da Carlo. Quando ha scoperto il linguaggio della serialità?

“Durante la pandemia, quando il mondo si è fermato. Sarei dovuto uscire con il mio ultimo film, Si vive una volta sola, ma ricevemmo uno stop 24 ore prima dell’uscita nelle sale. Abbiamo visto il buio. Con i miei produttori (Luigi e Aurelio De Laurentiis, ndr), abbiamo pensato che l’unico modo per andare avanti fosse quello di fare una serie su di me”.

Si è divertito?

“Mi è sembrato simpatico mettermi a nudo in quel modo. Non ho recitato: ho cercato solo di essere me stesso, muovendomi in maniera scoordinata come faccio io, parlando con la mia governante come accade con quella vera nella mia vera casa. Spero che sia uscito il più possibile un Carlo Verdone sincero”.

Le serie tv le piacciono più del cinema?

“Sono due cose diverse. Il cinema ha il suo tempo, la serie è una catena di montaggio e tutta un’altra cosa. Si corre sempre da una parte all’altra, bisogna avere una memoria di ferro, perché spesso ci sono dieci pagine di girato, ma quando poi viene bene, ti fa piacere”.

Nella serie precedente le veniva proposto di fare il sindaco di Roma, qui il Festival di Sanremo, spesso circondato da tanti personaggi famosi suoi amici. Nella vita vera qual è stato per lei un incontro indimenticabile?

“Sicuramente quello con Sergio Leone. È stato il primo che mi ha fatto debuttare al cinema, il primo che ha creduto in me. Ho raccontato diverse volte che mi diede uno schiaffo, perché non facevo la scena della telefonata con l’affanno giusto. Me lo diede con un anello pesante e mi fece un male cane. Questo è scemo, pensai. Poi però mi disse una frase che da allora è per me un insegnamento: Se uno non impara a ubbidire, non saprà mai comanda’. Come non dare retta a uno così?”.

Altri incontri?

“Beh, con Enzo Trapani (il grande regista del varietà tv, ndr). Mi venne a vedere al Birichino, un piccolo teatro con 50 posti e mi prese per il programma Non Stop nel 1977 insieme ad altri comici. Per farlo, andai a Torino. ‘Farai un sacco de sordi’, mi disse. Speriamo de divertì er pubblico, mi augurai”.

Con Ennio Morricone, invece, come andò?

Se iniziò la nostra collaborazione e poi la nostra amicizia, lo devo sempre a Sergio Leone. Stavo preparando Un sacco bello che avevo finito di scrivere. Sergio che lo produceva mi disse: ‘A Ca’, oggi vieni co’ me’. Andammo così in via Birmania, davanti una villa, e suonammo. Chi è? Disse una voce. ‘È il quarto nella dichiarazione dei redditi’, rispose Sergio. C’era Morricone dietro la porta. Prima lo conoscevo solo per la sua musica, per me era un mito. Ci fece entrare, ero intimorito, perché sapevo che era intransigente e che componeva musiche solo per i film che gli piacevano. Gli feci leggere il copione, ma all’inizio non mi sembrava così convinto. Inizia così a recitare il film lì dentro casa sua, ma Sergio mi disse che se a Ennio non gli davo il copione, non ci avrebbe capito nulla. Lui, invece, a mano a mano cambiò idea e si convinse che c’era della poesia, soprattutto in alcune scene e personaggi. Fu così che decise di comporre le musiche per quel film. Lo ebbi poi anche in Bianco Rosso e Verdone. Sono sempre rimasto molto affezionato a lui e lo ricordo con un affetto enorme”.

Tra gli altri incontri, c’è anche quello con Gigi Proietti. Qui al festival, invitato dal suo direttore artistico Paolo Genovese, dalla Regione Umbria e dal Comune di Todi, ha ricevuto il Premio che porta il suo nome. Come era?

“Per Sordi era il più grande di tutti perché sapeva fare tutto, e aveva ragione. È stato il nostro vero One Man Show, una maschera romana definita. Ha seguito le orme di Petrolini, ma l’ha superato”.

Ha citato Alberto Sordi.

“Lui era gigantesco. Come Aldo Fabrizi e Proietti, è stato una grande maschera romana che ha conquistato l’Italia. La guera, con una sola erre, diceva, è solo un gran giro di quattrini. E a distanza di anni, visto come stanno andando le cose in tal senso, non si può che dargli ragione”.

In molti dicono che lei sia il suo erede. È così?

“Ma che scherziamo! Di lui ce n’è uno solo. Sono sempre stato uno spettatore incantato dalla sua bravura, ma non ho mai cercato di imitarlo. Per me resta unico, non può avere eredi. Lui lo conobbi grazie a Christian (De Sica, ndr) che poi divenne il marito di mia sorella. Indimenticabili e grande esperienza di vita i due film che feci con lui: In viaggio con papà e Troppo forte. Gli piacque molto il personaggio di Furio che invece Sergio Leone detestava. Quest’ultimo organizzò una visione privata di Bianco, Rosso e Verdone nel cinema di casa sua con Sordi, Monica Vitti e il marito Roberto Russo. C’era anche Roberto Falcão, che poi non ho mai capito perché stava lì visto che non capiva bene l’italiano. Forse perché il figlio di Leone era romanista, chi lo sa. Fatto sta che c’era. Leone – che mi aveva detto che il film non sarebbe piaciuto – gli disse: qua’ se parla romano! E lui rideva. Rideva anche Sordi mentre guardava le scene e si detergeva la fronte col fazzoletto. Alla fine del film, Sordi si alzò e mi abbracciò. Viè qua’, Carlé – mi disse – hai fatto proprio un bel film’. Il film, a differenza di quello che aveva previsto Leone, andò benissimo”.

Con Sordi rimase amico fino alla fine: che persona era nel privato?

“Tanto era il suo sorriso davanti al pubblico, tanta era l’oscurità che aveva in casa. Viveva in un ordine maniacale e quella casa era quasi un monastero tra specchi, statue, oggetti, luci soffuse. I comici sono così: danno tanto al pubblico, ma nel privato sono molto diversi”.

Anche lei è così?

“Forse no. C’ho anch’io la mia malinconia, e mica è na’ cosa da poco!”.

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