Visniec non si risparmia mai

Ambiguità, leggerezza, doppi e tripli significati. E l’arte di trasformare tutto in situazione. Il romanziere e drammaturgo rumeno più rappresentato nel mondo ci schiaffa addosso la nostra condizione esistenziale

Il personaggio più interessante da decifrare, per me, è l’uomo. Per questo la letteratura non morirà mai. Ci sarà sempre bisogno di una grande pagina di teatro, di una grande pagina di romanzo”.

Fidarsi di Matei Visniec per partito preso. Scrittore e drammaturgo nato nel 1956 a Radauti sul confine con l’Ucraina, nel 1987 abbandonò la Romania, chiese asilo in Francia e diventò il drammaturgo rumeno più rappresentato nel mondo dopo la caduta di Ceausescu. Vincitore del premio per la letteratura europea Jean Monnet con il romanzo “Il venditore di incipit per romanzi” (Voland, 362 pp., 19 euro, traduzione di Mauro Barindi), è uno scrittore per lettori con le idee chiare, disposti a qualsiasi cosa pur di salvaguardare il proprio diritto al divertimento.

Quando si legge un romanzo di Visniec c’è da aspettarsi di tutto – l’assurdo e il realismo, il torbido e il cristallino, il comico e lo straziante – ma anche quando scrive per il teatro: commedie che sono tragedie (e viceversa) alle quali appioppa i titoli più brillanti in circolazione quanto a inventiva. Alcuni esempi? “I cavalli alla finestra”, “La storia di un panda raccontata dal sassofonista con la fidanzata a Francoforte”, “Della sensazione di elasticità di quando si cammina sui cadaveri”, “La storia del comunismo raccontata ai malati di mente”, “La macchina Cechov”, “Attico a Parigi con vista sulla morte”, “Inchiesta sulla sparizione di un nano da giardino”. Le sue storie mantengono sempre quel che promettono e nel 2009 Visniec ha ricevuto un premio per l’opera drammaturgica complessiva, il Prix européen de la Société des Auteurs et Compositeurs Dramatiques (Sacd). E’ il caso di brindare e rallegrarsi, dato che anche nelle giurie dei riconoscimenti teatrali più importanti alligna l’insana passione per l’attualità e le sue tematiche (una volta c’erano i temi, adesso è tematica o muerte) e troppe volte la tendenza è gratificare la pulsione didascalica, il simbolo puerile ma d’effetto, insomma, tutta una messe di disgraziatissimi ingredienti che per fortuna sono estranei al teatro di Visniec, che predilige l’ambiguità, la leggerezza, i doppi e tripli significati.

E la Storia. Perché se dovessimo riassumere in pochi tratti essenziali le correnti narrative in cui nuota lo scrittore, questa è senza dubbio la sua forza di Coriolis: in ogni opera di Visniec, sia teatrale sia letteraria, è il tempo in cui vive l’autore – questo nostro tempo – a imprimere una curvatura al racconto. Un tempo vivo e vegeto, narrato sotto forme mentite, presunte e porose. Tutto ciò che Visniec racconta è modellato dall’epoca, intriso dello spirito del tempo anche quando il punto di vista sembrerebbe laterale fino alla distorsione del nervo ottico – una verità sempre in incognito.

“La notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968, Jaroslava, giovane scenografa degli studi di animazione di Praga, lavorava di gran lena per portare a termine un film di venticinque minuti, un adattamento con pupazzi di plastilina tratto da Gulliver nel paese di Lilliput. Era mezzanotte e i carri armati sovietici stavano entrando a Praga. Oltre a essere brutta e a non avere nessuno, le erano capitati tra capo e collo anche i russi”.

Difficile classificare un romanzo che contiene tanti romanzi come “Sindrome da panico nella Città dei Lumi” (Voland, 328 pp., 17 euro, traduzione di Mauro Barindi), una delle prove più generose di uno scrittore che non si risparmia mai e costruisce macchine del tempo e dello spazio, mondi che generano mondi che si ritorcono su sé stessi e tornano su situazioni, vicende, personaggi. Ecco: situazioni. L’arte di Visniec risiede proprio nella sua capacità – di natura squisitamente teatrale, di sensibilità esclusivamente drammaturgica – di trasformare tutto in situazione, cioè di non limitarsi a refertare, adagiandosi nella piattezza, nella descrittività o nell’uniformità, ma mettendosi sempre in moto come una macchina macina-cose, che coi frantumi fa miracoli. La pigrizia non fa per Visniec e per i lettori di Visniec, eppure la lettura dei suoi romanzi o anche solo dei suoi copioni non è mai faticosa, anzi, è felicissima. La sensazione è quella di essere seduti comodamente mentre intorno vortica un puzzle scomposto che attende di trovar ragioni combinatorie, nel frattempo succede di tutto: piani di realtà che saltano e si sovrappongono, scale di Penrose narrative che si accavallano, bolle satiriche che prendono con leggerezza il volo. La scrittura di Visniec lavora, in fondo, sempre con gli stessi pezzi, ma costruisce macchine di volta in volta diverse, ad alta cilindrata fabulatoria.

“Nelle ore in cui i carri armati sovietici entravano a Praga e il cielo della Cecoslovacchia veniva coperto da centinaia di aerei militari, Karel non pensò né al futuro compromesso del comunismo né alle sorti del proprio Paese, la sua unica preoccupazione fu quella di scattare il maggior numero possibile di foto”. Karel è un fotografo trentenne e questo è il racconto delle ultime ore di Jaroslava, aspirante scrittrice, prima dell’emigrazione a Parigi. Jaroslava, ossia: “Il primo essere umano di Praga a sentire un milione di stivali, cinquecentomila soldati che marciavano sul suolo cecoslovacco”. Karel, invece, fu il primo fotografo “a scattare foto ai carri armati sovietici quando il sole non era ancora sorto”. Ma c’è anche Miroslav, quella notte. Tecnico delle luci vicino alla pensione, appassionato raccontatore di barzellette, fu il primo praghese a “sparare un proiettile contro un carro armato sovietico, lo fece alla finestra dello studio, alle 3 e 17 minuti, lanciando una bottiglia di birra mezza piena contro il quindicesimo carro armato della colonna che entrava a Praga avanzando dalla parte ovest della città, lungo viale Konevova”. Finisce male: Karel fotografa anche alcuni giovani che per disorientare i russi tolgono i cartelli coi nomi delle vie. E riuscì a fotografare Jaroslav Zeley, il primo studente che morì nel tentativo di impedire ai russi di occupare la capitale. Quindi, nel pomeriggio, tentò di consegnare ad alcuni fotografi occidentali le sue foto affinché le pubblicassero, ma alle 16 e 37 verrà arrestato dai russi, che in nottata avrebbero sviluppato i suoi scatti e proprio grazie a essi avrebbero arrestato centinaia di giovani.

Ecco cos’è una situazione: ma “Sindrome da panico nella Città dei Lumi”, che comincia con un amabile anziano che chiede a un altro, seduto al Caffè Saint-Médard “lei è autore o personaggio?” e per più ragioni sembra debitore di Michail Bulgakov e di Enrique Vila-Matas, non parla solo del comunismo in Cecoslovacchia o in Romania. Parla soprattutto di altro: un gruppo di immigrati, tutti aspiranti scrittori, tutti imprigionati nel problema di raccontare, tutti sottoposti alle comiche angherie del signor Cambreleng. “Tutti, in qualche modo, ipnotizzati da questo signor Cambreleng”. Che è un editore senza casa editrice. E che, con ruvida autorevolezza, cerca di istruirli in merito a ciò che è la letteratura, ammesso che sia ancora possibile. “I libri agonizzano come esseri viventi negli scaffali delle librerie”. La fauna degli aspiranti scrittori è molteplice, un vero catalogo: c’è un uomo cacciato di casa dal proprio gatto; c’è l’esule Jarolsava di cui sopra; c’è uno scrittore fallito pedinato da un gobbo e dalle origini così multiple che ha tentato di scrivere in una lingua al giorno fino a scontrarsi con la verità e cioè che le lingue non sono mai in pace l’una con l’altra (“le mie sette lingue non mi hanno dato sette vite, ma sette identità”); c’è la signorina Faviola col suo diario erotico (“le parole che vanno a letto con tutti possono essere definite puttane”); e infine c’è Matei, poeta rumeno autore di una poesia coi superpoteri, capace di rovesciare un governo e di elevarlo al rango di Grande Letterato nella Parigi agognata. Il romanzo, in fondo, canta una domanda: cosa salverà la letteratura? Quali parole? C’è una vita possibile, nelle pagine dei libri scritti e che si scriveranno? La lingua ci imprigiona o ci libera? Una sola, la certezza: “Il peggior posto per un libro è una libreria”.

“Quando ho lasciato la Romania nel 1987 pensavo che il comunismo sarebbe durato all’infinito, come in Corea del Nord, in Cina o a Cuba. Oggi la Romania è libera e integrata nell’Unione europea, che di fatto era il mio sogno da ragazzo. Certo, la nostra democrazia vira talvolta alla mascherata, l’economia è difficile, due milioni di rumeni sono all’estero. Ma noi vogliamo questa Europa e la Romania è finalmente un paese normale,” ha dichiarato lo scrittore in un’intervista del 2015 alla web tv Le Projecteur. Tutto questo è parte, a pieno titolo, del racconto di Matei Visniec. In ogni sua opera fa e disfa la tela dell’Europa degli esuli. E rielabora la storia degli immigrati, della dittatura, delle fughe in clandestinità, dell’estraneità al mondo stesso che ti salva. La sua opera teatrale che mostra meglio questo aspetto è “Occidental Express” (Titivillus Mostre Editoria, 108 pp., 10 euro, traduzione di Gianpiero Borgia), un testo organizzato per quadri, per scene, in cui non ritroviamo (quasi) mai i medesimi personaggi. Ma c’è una partitura che li tiene tutti insieme su piani ora concettuali, ora temporali, ora immaginari: il tempo, questo tempo. Incontriamo il vecchio cieco che, rivolto alla base americana, chiede: “Perché siete venuti così tardi? Perché avete fatto così tardi?” e nel frattempo piscia su qualunque frontiera incontri – è arrivato a diciassette e a una guardia dice: “Lo sai tu cosa significa urinare in Siberia a meno venti?”. E poi: “Ragazzo, non te la prendere, ho l’odio dentro”. Incontriamo un gruppo di zingari di Bucarest che dormono nella metropolitana e gruppi di musicisti balcanici che devono recitare sé stessi in versione kitsch nella carrozza ristorante di un treno di lusso. Ascoltiamo il dialogo terrorizzato di due giovani in cella che si danno consigli su come resistere alle torture (“L’importante è lasciarti picchiare senza farli irritare. Non fare lo spaccone. E soprattutto non alzare la testa. Quando inizieranno a picchiarti tieni giù la testa e guarda a terra. Sinceramente parlando, spero che comincino a picchiarci prima possibile”.) E uno studente che, davanti a una commissione d’esame, durante una discussione che assomiglia a una prolusione al cospetto di un comitato di ottusi, oltre a esporre la tesi per cui il comunismo è crollato grazie agli imballaggi dei prodotti occidentali, afferma che nell’area balcanica è nascosto un popolo che parla una lingua sconosciuta. Una lingua che è rimasta nascosta a tutti. Un popolo che “prende forma a seconda del contesto storico” e che non ha lasciato tracce. Lo studente sa, ma non ne ha le prove. O meglio, non può averle: “Questo popolo è sopravvissuto proprio perché non ha lasciato tracce. Un popolo che ha attraversato tremila anni di storia senza segnalare la sua presenza all’universo. E che ha mantenuto la propria lingua segreta come unica sostanza di identità”.

Anche “Lo spettatore condannato a morte” (Cleup, 118 pp., 16 euro, traduzione di Maria Emanuela Raffi) è una vivacissima pièce che riecheggia Kafka e Gombrowicz mettendo in scena un ipotetico processo da parte di un giudice, un cancelliere e un procuratore – corrotti dal ruolo sociale che devono rappresentare – agli spettatori della pièce medesima, chiamati a difendersi e a testimoniare: dalla maschera che strappa i biglietti, fino alla ragazza che custodisce i cappotti, a quella che sta al bar. Le accuse sono così capziose (“mentre faccio di lei una bestia”, grida a un certo punto il procuratore a un testimone, “lei sorride e pensa che sto solo recitando il mio ruolo”) da dimostrare che, con una buona dose di convinzione, si può scovare colpevolezza ovunque e in chiunque. (Litigio tra il giudice e il procuratore. “Esisto, ma non posso provarlo con certezza. La mia esistenza è una certezza”. “Noto che lei diventa sempre più insolente e presuntuoso”. “Dato che lei mi insulta, è più certo che esisto”. “Supponiamo che lei esista. Supponiamo che lei sia davvero in questa stanza. Supponiamo perfino che lei risponda alle mie domande. E allora?”. “Questo è il teatro!”).

E questa è la letteratura di Matei Visniec, un autore che ci schiaffa addosso, costringendoci a riderne, la condizione esistenziale che scontiamo tutti: clown che pattinano sulla segatura di un circo equestre.

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