“Ripensare al tetto ai manager pubblici”. Parla il ministro Zangrillo

“Cambiare i tetti retributivi nella Pa? Il ragionamento è da fare se l’obiettivo è reclutare i migliori. Le posizioni apicali comportano molte responsabilità e servono competenze e capacità manageriali”, ci dice il ministro per la Pubblica amministrazione

Dice Paolo Zangrillo, ministro per la Pubblica amministrazione del governo Meloni, che le parole preziose usate da Mario Draghi nel suo rapporto sulla competitività sono parole di cui dovrebbe far tesoro non solo chi vuole provare a guidare l’Europa ma anche chi vuole provare a far funzionare meglio alcuni ministeri, come quello della Pubblica amministrazione. Mario Draghi, ricorderete, nel suo rapporto sulla competitività ha sostenuto senza mezzi termini che il dramma dell’Europa riguarda la produttività. Senza produttività non c’è competitività. Senza competitività non c’è crescita. Senza crescita non c’è futuro.

Paolo Zangrillo, in questa chiacchierata con il Foglio, concorda. Dice che “l’aumento della produttività è un fattore cruciale per lo sviluppo, non soltanto economico, di qualunque paese”. Rivendica il fatto, portando acqua al proprio mulino, che “anche l’Italia, che grazie alle scelte del nostro governo sta crescendo più di Francia e Germania nonostante il difficile contesto internazionale, non sfugge a questa regola”. Riconosce che “la Pa è motore di sviluppo e, al contrario, diventa un freno quando non è capace di rispondere adeguatamente alle istanze di cittadini e imprese”. E auspica anche che il governo possa portare avanti “un cambio di paradigma epocale, necessario per realizzare un risultato di semplificazione riconosciuto dai nostri utenti”. Secondo Zangrillo “sono molte le cose che si possono fare, e molte di queste le abbiamo avviate, per favorire la produttività della Pa”. “Stiamo lavorando sulle nostre persone, l’enorme capitale umano dei pubblici dipendenti, e sui processi. Siamo intervenuti in diversi settori, dall’artigianato alle energie rinnovabili, per ridurre l’eccessiva burocrazia, semplificando 200 delle 600 procedure previste dal Pnrr, e liberare le Pmi da un sistema in cui rischiavano di subire 122 controlli all’anno da parte di 19 enti pubblici diversi. Un lavoro che non svolgiamo nel chiuso dei nostri uffici, ma dialogando con i nostri enti, le imprese e le associazioni di categoria”.

Chiediamo al ministro di essere meno astratto e di scendere con i piedi per terra e di spiegare in che modo il governo potrebbe provare a imporre una svolta nella Pa sul tema della produttività. Il ministro dice che “sono tante le azioni che questo governo ha intrapreso per modernizzare le nostre amministrazioni e venire incontro alle esigenze di cittadini e imprese”. Per esempio, dice Zangrillo, “abbiamo ereditato una situazione per nulla semplice, con il blocco del turn over conseguente alla crisi finanziaria del 2008 che ha tolto 300 mila persone dai nostri uffici: la stagione contrattuale della tornata 2019-2021 scontava un forte ritardo, la formazione media dei dipendenti non raggiungeva nemmeno un giorno all’anno e abbiamo affrontato l’emergenza con senso di urgenza e grande coraggio, grazie alla completa digitalizzazione delle procedure, che ha ridotto i tempi dei concorsi da 780 giorni a sei mesi. Le assunzioni sono state 170 mila nel 2023 e quest’anno abbiamo già bandito oltre 13 mila concorsi, per un totale di circa 288 mila posti a bando”.

Il ministro Zangrillo sembra voler dire che il governo di cui fa parte ha ben chiaro che la Pubblica amministrazione deve tentare in tutti i modi di essere più produttiva, e dunque più efficiente, per tenere il passo delle imprese private. Eppure, facciamo notare al ministro che, quando si affronta questo tema, il tema dell’efficienza, il tema della capacità della Pubblica amministrazione di essere attrattiva, emerge sempre un problema. Lavorare nella Pubblica amministrazione, si sa, è una vocazione, a volte. Eppure è evidente che la Pubblica amministrazione spesso non è attrattiva per questioni legate anche ai salari. Il governo, anche se a volte più a parole che nei fatti, ha posto più volte il tema del merito come un elemento cruciale della sua azione – o forse sarebbe meglio dire narrazione – di governo. Chiediamo dunque al ministro se non pensa che per promuovere il merito e per uscire dalla stagione della sbornia populista non sia un dovere del governo aprire un ragionamento sul tetto ai salari nella Pa (240 mila euro lordi). Zangrillo ci pensa, abbandona il linguaggio diplomatico e ci offre una risposta sorprendente. “In maggioranza non ne abbiamo parlato, ma è un ragionamento che prima o poi andrà fatto se l’obiettivo è quello di reclutare i migliori. Anche nel pubblico, come nel privato, le posizioni apicali comportano grandi responsabilità e, per ricoprirle, servono competenze specialistiche e capacità manageriali. Puntare a una classe dirigente con queste caratteristiche, significa uscire dai recinti ideologici e guardare al pubblico come al privato”.

Esiste un tema di salari che riguarda i vertici alti della piramide ma esiste anche ovviamente un tema di salari che riguarda i vertici bassi della stessa piramide. Tema: come si aumentano i salari nella pubblica amministrazione? Nel privato, gli aumenti dei salari sono sempre più legati alla produttività. Chiediamo al ministro: sarebbe uno scandalo pensare a soluzioni del genere anche per la Pa? “Niente affatto: trovo impensabile continuare con la logica degli aumenti a pioggia e dei dipendenti tutti eccellenti. Quando parliamo della competitività delle retribuzioni dobbiamo ragionare anche sui sistemi gestionali. La Pubblica amministrazione, come qualunque altra organizzazione, deve assegnare obiettivi veri e sfidanti, in base ai quali riconoscere l’eccellenza, e deve disporre di un sistema di misurazione e di valutazione della performance coerente con l’assegnazione dei premi. Oggi tutto questo non esiste, è un processo meramente burocratico. Rifiuto categoricamente questo approccio perché significa rinunciare all’idea di una Pa moderna e attrattiva, significa abdicare all’esigenza di essere vicini alle aspettative dei nostri utenti, attraverso la valorizzazione delle persone”.

Si dice spesso che il dramma della Pa sia l’eccesso del suo personale ma non si parla mai abbastanza del fatto che quel che manca nella Pa, spesso, è il personale competente e qualificato. Come si affronta in modo non retorico questo guaio? “Non è affatto vero che in Italia i dipendenti pubblici sono troppi. Il rapporto con gli abitanti è del 5,3 per cento, molto più basso rispetto a Germania, Francia o Spagna. Ed è basso anche il rapporto sul totale degli occupati, circa il 14 per cento, contro una media Ocse del 18; nei paesi del Nord Europa si attesta sul 25-30 per cento, in Francia intorno al 20. Il decreto Flussi è una leva per avere lavoratori che arrivano nel nostro paese già formati, perché scoraggia gli ingressi irregolari ampliando i canali per chi vuole invece entrare in Italia per lavoro. Quando si affronta il tema non bisogna cadere nelle banalizzazioni, che non fanno altro che ribadire dei luoghi comuni: posso confermare che nella Pubblica amministrazione ci sono eccellenze che dobbiamo essere capaci di premiare. La sfida è quella di puntare su una formazione continua”.

Ci può dire quale potrebbe essere una formula utile per misurare finalmente l’efficienza dei dipendenti della Pa ed eventualmente premiarli? “Il merito è centrale per il buon andamento di qualunque organizzazione, ma nella Pubblica amministrazione c’è ancora scarsa sensibilità su questo tema. La Corte dei conti ha certificato l’appiattimento verso l’alto delle valutazioni del personale e la conseguente attribuzione di premialità senza adeguati presupposti meritocratici. E’ quanto sostengo sin dal mio insediamento. Per questo ho già emanato una direttiva che parla di performance e di corretta attuazione della valutazione degli obiettivi e ora sto lavorando per introdurre novità importanti dal punto di vista delle progressioni di carriera, per rendere più flessibili le possibilità di avanzamento e assegnare ai dirigenti un ruolo determinante nella crescita delle persone. Vogliamo passare dall’attuale modello, un ‘fai da te’ in cui per far carriera si deve studiare e vincere un concorso, a un sistema per obiettivi, dove si viene valutati e premiati sulla base dei risultati raggiunti. È anche in questo modo che si diventa più attrattivi nei confronti dei giovani”. E’ possibile che nella prossima primavera ci sia un referendum per rimettere in discussione il modello Jobs Act.

Domanda: non pensa che una forma di flessibilità simile andrebbe introdotta finalmente anche nella Pa? “Ho il timore che la discussione sul Jobs Act ci riporti nel recinto delle ideologie, allontanandoci dagli attuali problemi del mondo del lavoro. I giovani d’oggi vogliono più del posto fisso; cercano opportunità di carriera, attraverso la formazione e la valorizzazione del merito, e il giusto bilanciamento tra l’occupazione e la vita privata. E’ su questi temi che stiamo lavorando e su cui dobbiamo confrontarci, non sui vecchi slogan”.

  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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