Far competere i maschi con le femmine è violenza, dice il rapporteur dell’Onu

Un maggiore rischio di subire lesioni gravi, meno probabilità di vittoria, autocensura ed emarginazione: un documento presentato alle Nazioni Unite sottolinea la pericolosità di permettere agli atleti geneticamente maschi di gareggiare nelle categorie femminili

Titolo del rapporto “Violenza contro le donne e le ragazze nello sport”, autrice Reem Alsalem, Special Rapporteur antiviolenza alle Nazioni Unite, presentazione annunciata per l’8 ottobre all’assemblea plenaria di New York. Documento rilevante per almeno un paio di ragioni: perché racconta il mondo dello sport, oltre ogni retorica paritarista e pink-washed (“fantastiche le nostre ragazze!”), come un luogo ancora ferocemente maschile, dove gli uomini comandano incontrastati e per le atlete non c’è niente di facile; e perché, soprattutto, classifica senza mezzi termini come violenza sessista l’invasione di campo degli ultracorpi maschili – variamente femminizzati – negli sport femminili.



E’ questa la parte più attesa – e sarà probabilmente la più discussa- del rapporto di Alsalem dopo un’estate olimpica infernale tra trans e intersex, dal caso Khelif – sul cui cariotipo non c’è ancora verità ufficiale – a Petrillo, sul cui cariotipo invece (XY) non possono esserci dubbi. Scrive Alsalem nelle raccomandazioni finali: “Per garantire la sicurezza e l’equità nello sport a tutti i livelli è necessario: garantire che le categorie femminili nello sport organizzato siano accessibili esclusivamente alle persone il cui sesso biologico è femminile. Nei casi in cui il sesso di un atleta è sconosciuto o incerto dovrebbe essere applicato un metodo di screening sessuale dignitoso, rapido, non invasivo e accurato (come un tampone nella guancia) e, ove necessario per motivi eccezionali, test genetici per confermare il sesso dell’atleta (…) In alcune circostanze eccezionali potrebbe essere necessario eseguire anche test più complessi”. Alsalem propone una soluzione anche per gli atleti gender-variant: “Garantire la partecipazione (…) attraverso la creazione di categorie aperte per quelle persone che non desiderano competere nella categoria del loro sesso biologico, o convertire la categoria maschile in una categoria aperta”.



Ragione consistente per impedire agli XY di gareggiare tra le donne è il fatto evidente che “le atlete sono a maggior rischio di subire gravi lesioni fisiche (…) fatto documentato in discipline come la pallavolo, il basket e il calcio. Sono stati segnalati casi in cui maschi adulti sono stati inclusi in squadre di ragazze minorenni. Tra gli infortuni figurano denti rotti, commozioni cerebrali con conseguenti danni neurali, frattura delle gambe e del cranio. Secondo studi scientifici i maschi hanno vantaggi in termini di prestazioni. Uno studio afferma che anche negli sport non d’élite “l’uomo meno potente produce più potenza della donna più potente” e afferma che dove uomini e donne hanno più o meno gli stessi livelli di forma fisica la potenza media dei pugni dei maschi è del 162 per cento maggiore rispetto a quella femminile”.



Non meno auto-evidenti le ragioni di lealtà e giustizia sportiva: “La sostituzione della categoria sportiva femminile con una categoria mista ha portato un numero crescente di atlete a perdere opportunità, medaglie comprese, quando gareggiano contro uomini. Secondo le informazioni ricevute, al 30 marzo 2024 oltre 600 atlete in più di 400 competizioni hanno perso più di 890 medaglie in 29 sport diversi. Alcune federazioni sportive impongono la soppressione del testosterone affinché gli atleti possano qualificarsi nelle categorie femminili degli sport d’élite. Tuttavia la soppressione farmaceutica del testosterone per gli atleti geneticamente maschi non eliminerà l’insieme dei vantaggi comparativi in ​​termini di prestazioni che hanno già acquisito. Questo approccio potrebbe non solo danneggiare la salute dell’atleta interessato, ma anche non riuscire a raggiungere il suo obiettivo dichiarato. Pertanto, i livelli di testosterone ritenuti accettabili da qualsiasi organismo sportivo sono, nella migliore delle ipotesi, non basati sull’evidenza, arbitrari e favoriscono asimmetricamente i maschi”.



Conclusione: “I maschi non devono competere nelle categorie sportive femminili”: chiaro e semplice. Eppure non si può dire. Le atlete – e mica solo loro – devono ingoiare e tacere, ed è violenza pure questa. Scrive Alsalem: “Le atlete e gli allenatori che si oppongono all’inclusione degli uomini nei loro spazi a causa di preoccupazioni sulla sicurezza, sulla privacy e sull’equità vengono messi a tacere o costretti ad autocensurarsi, altrimenti rischiano di perdere opportunità sportive, borse di studio e sponsorizzazioni. Molte sono anche accusate di bigottismo, sospese dalla squadra e sottoposte a ordini restrittivi, espulsioni, accuse di diffamazione e procedimenti disciplinari ingiusti. In almeno un caso, un’atleta non ha ricevuto un giusto processo. Altre donne hanno abbandonato lo sport a causa di pressioni, minacce, comprese minacce di morte, e abusi verbali. Conseguenze che sono state segnalate tra l’altro negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nei Paesi Bassi in violazione dei diritti umani fondamentali delle atlete alla libertà di credo, opinione ed espressione. Le donne vengono aggredite quando si riuniscono per discutere su questi temi”.



Chestertoniamente, Alsalem compila 20 documentatissime pagine a spada sguainata per dimostrare quello che dovrebbe essere già lampante e per affermare in via definitiva che imporre a una donna di competere con un uomo, qualunque sia il genere che gli viene attribuito sul passaporto, è pura e semplice violenza. Non meno grave di tutte le altre violenze “sportive” che vengono enumerate nel dettaglio: gli stereotipi che scoraggiano l’accesso, il divieto assoluto per le afghane, le molestie e i soprusi sessuali – anche da parte di coach “abusivi e predatori” –, il bullismo online, i dress code obbligatori (bikini nel beach volley, hijab per le iraniane), le leve del comando saldamente in mano agli uomini, “un management esclusivo e patriarcale” (solo il 10 per cento delle organizzazioni sportive è presieduto da una donna), il gap nei compensi e nelle sponsorizzazioni e così via. Tutte ragioni che contribuiscono a tenere le ragazze lontane dallo sport, riconosciuto invece da varie convenzioni internazionali come un quasi-diritto umano: empowering, capace di promuovere benessere e autostima, fattore di promozione sociale. Le Nazioni Unite, conclude Alsalem con una lunga serie di raccomandazioni, devono farsi carico di liberare lo sport dal vecchio e dal nuovo machismo glitterato. Stavolta le federazioni non potranno voltarsi dall’altra parte (c’è anche una petizione Change, “Save women’s sport”, a sostenere la prode Alsalem: cercatela).

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