La Greedflation è una narrazione di successo, ma è falsa

La teoria dell'”inflazione da profitti” è stata molto popolare, ma un nuovo lavoro di Harvard dimostra che i margini di profitto (mark up) delle imprese sono rimaste costanti. Già la Banca d’Italia aveva smentito questo luogo comune

Negli ultimi due anni di rapido aumento dei prezzi, a tassi che non si vedevano dagli anni Ottanta, una narrazione molto popolare è stata quella dell’“inflazione da profitti”. Dice più o meno così. In seguito alla pandemia di Covid, che ha visto restringersi l’offerta a causa dei colli di bottiglia nelle forniture globali, e allo choc energetico dopo l’invasione dell’Ucraina, le imprese hanno aumentato i prezzi ben oltre quanto sarebbe stato giustificato dall’aumento dei costi: hanno aumentato i margini di profitto. Una variazione dell’“inflazione da profitti” è la Greedflation: l’inflazione da avidità (delle imprese). Ne hanno parlato a lungo politici e sindacalisti, invocando “tasse sugli extraprofitti” praticamente in ogni settore dell’economia.

Un nuovo studio degli economisti dell’Università di Harvard Alberto Cavallo, Paolo Mengano, Santiago Alvarez e Alexander MacKay arriva a conclusioni opposte. Analizzando i margini di profitto (mark up) e le strategie di prezzo lungo tutta la catena di fornitura in Stati Uniti, Regno Unito, Canada e Messico per migliaia di prodotti, gli economisti giungono alla conclusione che i margini di profitto totali “sono stabili e condivisi tra produttore e rivenditori”. Pertanto, non ci sono prove che “l’inflazione sia guidata da mark up più elevati; nella serie temporale, i prezzi più elevati sono guidati da costi più elevati”. Questi risultati, concludono gli economisti, “non sono coerenti con l’ipotesi della greedflation, che suggerisce che negli ultimi anni l’inflazione è stata guidata dalle imprese che hanno aumentato i propri mark up”.

Lo studio del gruppo di Harvard è peraltro coerente con le evidenze di uno studio precedente, realizzato dagli economisti della Banca d’Italia Fabrizio Colonna, Roberto Torrini ed Eliana Viviano, che si è occupato di quest’altra parte dell’Oceano Atlantico, contribuendo a cambiare il dibattito nella Bce. Anche secondo gli economisti di Bankitalia, in Italia e in Germania c’è stata “una dinamica stazionaria o negativa dei mark up”. Il fatto che le imprese abbiano preservato i margini di profitto vuol dire che sono riuscite a scaricare l’aumento dei costi sul prezzo finale, producendo un aumento della quota dei profitti sul valore aggiunto. Ma questa è una conseguenza dell’inflazione, non la sua causa. Si tratta di “profitti da inflazione” più che di “inflazione da profitti”.

Ciò non vuol dire che non esista un problema distributivo, tra imprese e lavoratori, con le prime che sono riuscite a difendersi e i secondi che hanno pagato lo choc, in attesa che i salari recuperino il potere d’acquisto perduto. Ma è importante non fare confusione tra cause e conseguenze. Perché se fosse stata presa fino in fondo sul serio l’ipotesi della greedflation sarebbe cambiata anche la risposta delle banche centrali: non l’aumento dei tassi di interesse, ma aumento delle tasse (sui profitti) e controllo dei prezzi. E chissà con quali esiti. Per fortuna la Fed e la Bce hanno scelto, sebbene con un certo ritardo, una strada più ortodossa facendo scendere l’inflazione senza neppure grossi danni per la crescita e l’occupazione.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali

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