L’Intelligenza artificiale umanizzata da Doraemon, il gattone blu dei manga

Con i suoi gadget magici e la sua “umanità”, il celebre personaggio di cartoni animati e fumetti rappresenta una tecnologia avanzata e benevola che aiuta senza sostituire l’essere umano: così il vero rischio risiede nell’uso errato della tecnologia da parte delle persone, non nella tecnologia stessa

Doraemon è un manga giapponese, nato nel 1969 dalla fantasia di Fujiko Fujio, pseudonimo dell’artista Hiroshi Fujimoto. Un fenomeno che dal Giappone è diventato planetario, con migliaia di edizioni, tra fumetti e serie televisive, tradotte in decine di lingue. Per dare un’idea, basta questo episodio: nel 2016 durante la cerimonia conclusiva delle Olimpiadi di Rio de Janeiro, il passaggio di consegne tra Rio e Tokyo venne fatto dal primo ministro giapponese Shinzo Abe affiancato da tre personaggi eminenti: Super Mario, PacMan e… Doraemon.

Doraemon è un gatto-robot venuto dal futuro per aiutare Nobita, un ragazzino di dieci anni un po’ sfigato che vive alla periferia di Tokyo. È azzurro, grasso e sempre sorridente, con una grande tasca sulla pancia, il “Gattopone”, da cui estrae dei gadget magici, i CHIUSKY (pron. “ciuschi”), che servono per risolvere i problemi di Nobita e dei suoi amici. C’è un chiusky per ogni cosa: per volare, per viaggiare nel tempo, per teletrasportarsi. Il Gattopone e i chiusky di Doraemon mi hanno fatto pensare all’Intelligenza Artificiale, in particolare quella generativa di cui tanto si parla, e all’evoluzione del rapporto tra esseri umani e macchine. Trovo che le sue storie siano una eccellente metafora di quello che stiamo vivendo e ci diano una visione nello stesso tempo “tecnica” e molto umana del nostro futuro.

Doraemon è stato inviato dal ventiduesimo secolo per venire in aiuto di Nobita; rappresenta quindi un modello tecnologico molto molto evoluto, per noi un prezioso sguardo sul futuro. È come se potessimo vedere oggi le tecnologie che saranno presenti e funzionanti nel 2124. E ricordiamoci che Doraemon è giapponese, con tutti gli elementi filosofici che ne conseguono. Il nostro gattone blu è sicuramente alimentato da una IA che genera dei risultati sulla base di comandi. Oggi si parla molto di “Large action models”, l’evoluzione dei Large language models, dove a un comando corrisponde non un testo o una immagine, ma una vera e propria azione. I chiusky sono una versione super evoluta di un LAM, dove non servono più nemmeno quelli che oggi chiamiamo “prompt”: Il gattone/robot ha la capacità di ascoltare i problemi di Nobita, pensare alla soluzione/chiusky più adatto, ed estrarlo dal Gattopone mettendolo a disposizione del suo amico in tempo reale. Un processo perfettamente ingegnerizzato che combina componenti software (il modello linguistico, il riconoscimento vocale, ecc.), hardware (il Gattopone può contenere agevolmente oggetti anche di dimensioni importanti) e produttive (i chiusky sono oggetti facili da installare e usare, non necessitano e si integrano perfettamente con chi li utilizza).

L’elemento dirompente di Doraemon è però la sua “umanità” (o meglio “umanizzazione”, perché frutto di una elaborazione tecnologica). Il gattone blu addirittura mangia (il suo cibo preferito sono i Dorayaki, delle specie di pancake imbottiti di marmellata ai fagioli rossi Azuki) e prova sensazioni come il piacere o il gusto. La sua relazione con Nobita è molto diversa da quella che oggi vediamo tra un essere umano e una macchina: i due dialogano in modo molto empatico e paritario, esprimono opinioni anche diverse e spesso discutono animatamente. Doraemon è stato comunque programmato per costruire e non per distruggere, quindi alla fine il suo obiettivo è sempre di dare una mano a Nobita. È una AI buona, che si affianca all’essere umano, lo aiuta ma non ne prende mai il posto. Nel futuro di Doraemon la “singolarità” prefigurata da Ray Kurzweill, dove le macchine prendono il sopravvento sulle persone, non si è verificata, ma persone e macchine collaborano tra loro e lavorano per il bene comune.

Nel futuro come nel presente esiste però un problema, e non stiamo parlando della macchina (in questo caso Doraemon) ma dell’essere umano (in questo caso Nobita). La macchina ascolta i problemi, li analizza, trova soluzioni, ma deve poi essere la persona a usare i chiusky nel modo giusto. E qui partono i guai: un chiusky usato nel modo sbagliato o con superficialità da una persona può fare grandi danni.

Ecco qui un altro esempio: Nobita è innamorato di Shizuka, una sua compagna di classe, e vorrebbe che lei lo contraccambiasse. Doraemon estrae dal Gattopone il chiusky perfetto: un uovo gigante, “l’uovo dell’imprinting”. Chi si trova dentro l’uovo quando si apre, si innamora immediatamente della prima persona che vede. Nobita fa entrare Shizuka nell’uovo ma poi si distrae, l’uovo di apre e la ragazza si innamora pazzamente di Dekisugi, un amico di Nobita che si trova lì per caso. Problema compreso al cento per cento, soluzione corretta, esecuzione sbagliata per errore umano, danno permanente e irreversibile.

Nelle oltre tremila storie di Doraemon questi elementi di base (tecnologia avanzata, rapporto essere umano-macchina, criticità degli strumenti AI) vengono raccontati in modo dettagliato, ma con grande semplicità e leggerezza. Una puntata di un cartone animato di Doraemon ci insegna più sull’Intelligenza artificiale di uno dei tanti articoli che vediamo ogni giorno su testate prestigiose o postati su social come Medium o LinkedIn.

Tutti parlano di Intelligenza artificiale, pochi ne capiscono veramente le componenti di base, e da questo deriva una paura irrazionale e una narrazione al confine tra il terrorismo e il folklore. Capire l’AI è una cosa seria, abbiamo bisogno di competenza ma a mio parere serve anche leggerezza.

I nostri riferimenti culturali devono cambiare e sono convinto, non mi vergogno a dirlo, che il nostro gattone blu venuto dal futuro possa essere più autorevole di molti pseudo guru. Doraemon riesce a darci una visione ampia e dettagliata, ci incuriosisce e attiva il nostro senso critico. E lo fa con un tono semplice, leggero, umoristico.

Come dice papa Francesco: “L’umorismo è un’espressione umana che si avvicina moltissimo alla grazia. L’umorismo è leggerezza, è soave, rallegra l’anima e ci offre una speranza”. Noi ci siamo nutriti di seriosità, che non vuol dire serietà. Il nostro mantra è stato e continua a essere “stay hungry, stay foolish”: bello, ispirante ma un po’ troppo pieno di supponenza e superficialità. Va bene restare inquieti ed essere capaci di porci domande. Forse però, per capire il mondo e andare avanti, abbiamo meno bisogno di affamati/folli e più di umoristi. Prendiamo senza vergogna come maestro un gatto blu e aggiungiamo a “stay hungry, stay foolish” un liberatorio “have fun!”.

Sergio Amati è direttore generale di Iab, Interactive Advertising Bureau

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