La sorpresa dell’estate 2024: la paura dello straniero non tira più

L’economia dice che serve immigrazione, tanta, buona e regolare. E anche il governo ha capito: l’immigrazione si governa, non si ferma. Ciao sovranisti

E’ l’antisalvinismo, bellezza. Tra le molte ragioni per cui verrà ricordata l’estate del Duemilaventiquattro ce n’è una culturalmente rilevante che coincide con una rivoluzione positiva di cui si è resa protagonista la politica italiana. La rivoluzione riguarda un tema che un tempo era preponderante e che oggi invece è diventato minoritario e che coincide con un’espressione che potremmo brutalmente sintetizzare così: la paura dello straniero. C’è stato un tempo, non troppo remoto, durante il quale, all’interno del mondo politico italiano, vi era una competizione reale su quale potesse essere il partito più vicino alla grande paura degli italiani: lo straniero della porta accanto. E’ arrivato un tempo, quello presente, durante il quale, invece, all’interno del mondo politico, le discussioni attorno al tema dell’immigrazione hanno cambiato dimensione. Al punto tale che la stessa destra che un tempo considerava popolare sventolare lo scalpo del migrante su ogni social oggi tenta in tutti i modi di emanciparsi da quella stagione. Il caso più interessante, e probabilmente più clamoroso, è ovviamente quello che riguarda lo ius scholae. E il fatto che il tema della semplificazione della cittadinanza per gli stranieri che hanno completato un ciclo scolastico abbia diviso il centrodestra, con Forza Italia favorevole alla proposta, con la premier Giorgia Meloni non ostile alla proposta e con il solo Matteo Salvini deciso a custodire la parte del truce anti migranti, testimonia un fatto interessante. Cinque anni fa, ai tempi del 34 per cento di Salvini alle europee, l’algoritmo del consenso elettorale suggeriva di investire forte sulla paura dello straniero. Oggi quell’algoritmo è evidentemente cambiato e persino a destra deve essere chiaro che trasformare gli immigrati in un’opportunità per il paese, in una risorsa si sarebbe detto un tempo, non può essere un tema lasciato solo ed esclusivamente alla sinistra. Il secondo caso, altrettanto clamoroso, riguarda le reazioni incredibilmente positive e poco ostili suscitate dal formidabile discorso pronunciato al Meeting di Rimini dal governatore di Bankitalia Fabio Panetta. Mercoledì scorso, Panetta ha ripreso un passaggio già contenuto nelle sue considerazioni finali di fine maggio e ha detto che l’Italia per rafforzare il capitale umano, migliorare la sua crescita, incrementare la sua produttività, perfezionare la sua competitività ha bisogno con urgenza di “misure che favoriscano un afflusso di lavoratori stranieri regolari”, in grado di “bilanciare le esigenze produttive con gli equilibri sociali, rafforzando l’integrazione dei cittadini stranieri nel sistema di istruzione e nel mercato del lavoro”. Il senso del ragionamento di Panetta è evidente: il punto cruciale oggi, per mettere a fuoco il tema dell’immigrazione, non è più soltanto di carattere umanitario ma è anche di carattere economico e per l’Italia è arrivato il momento di ragionare su una dimensione diversa, quando si parla di immigrazione. Ovvero: che rischi atroci corre l’economia italiana, per le sue pensioni, per il suo reddito, per il suo debito, per la sua produttività, per la sua crescita, per la sua manodopera, per i suoi ospedali, senza avere più immigrati rispetto a quelli che ha oggi.

Più che aiutarli a casa loro, dunque, facciamoci aiutare a casa nostra. Un discorso poco vannacciano e poco salviniano, diciamo, ma incredibilmente elogiato anche dallo stesso Matteo Salvini, che deve aver capito, nei giorni dispari, quello che finge di non capire nei giorni pari, ovverosia che il ceto produttivo a cui un tempo parlava la Lega oggi chiede alla classe politica italiana non di sbarrare la strada ai migranti ma di averne, di regolari, di più, di più, di più. D’altronde, a proposito di paradigmi che cambiano, di tendenze che mutano, di trend che si invertono, il governo potenzialmente più xenofobo della storia recente della Repubblica italiana, quello attuale, è anche lo stesso governo che ha dato vita al decreto Flussi più importante di sempre per l’Italia, 452 mila ingressi in tre anni, anche se le imprese dicono che ne servirebbero il doppio, ed è anche lo stesso governo che ha avviato un iter per la revisione della Bossi-Fini, è anche lo stesso governo che ha firmato un accordo sull’immigrazione in Europa contro Orbán, è lo stesso governo che ha scelto di collaborare nel Mediterraneo con le ong che hanno mandato a processo Salvini, è lo stesso governo che ha chiesto all’Europa un aiuto per redistribuire i migranti nel nostro continente, è lo stesso governo che ha chiesto alla Commissione europea una mano per governare i flussi migratori non praticando il blocco navale ma provando a sporcarsi le mani facendo politica nei paesi africani meno responsabili nella gestione delle partenze dalle proprie coste. Nelle grandi sorprese dell’estate del Duemilaventiquattro, quando si parla di immigrazione, ce n’è un’altra gustosa che riguarda i riflessi che questo cambio di paradigma ha avuto nella narrazione televisiva. Lo scorso anno, quando il numero di migranti arrivati in Italia sotto il governo Meloni aveva superato il numero di migranti arrivati nell’ultimo anno del governo Draghi (157.652 con Meloni, 105.131 con Draghi), le reti più vicine al governo hanno evitato di offrire ai telespettatori troppe immagini di sbarchi. Senso dell’operazione: meglio non ricordare forse che nel 2022, con meno sbarchi rispetto a quelli registrati nella stagione di Meloni, la destra chiedeva le dimissioni del ministro competente, per manifesta incapacità sul tema dell’immigrazione. Oggi, invece, con un numero di sbarchi, nel 2024, più basso rispetto al 2023, anche se a luglio (7.645 arrivi) gli sbarchi sono stati simili a quelli registrati nel primo anno di governo Draghi (8.609) il miracolo si ripete. I telegiornali dedicano poco spazio al teorico successo del governo (gli sbarchi rispetto a un anno fa sono diminuiti (dal primo gennaio al 22 agosto del 2023 erano 105.833, dal primo gennaio al 22 agosto del 2024 sono 38.190). E lo fanno anche perché quale che sia la spiegazione per cui gli sbarchi sono diminuiti quella spiegazione non aiuterebbe la vecchia destra sovranista a portare acqua al suo mulino. Non si può dire con troppa forza che gli sbarchi sono diminuiti perché la situazione politica in Tunisia è meno drammatica rispetto a un anno fa: significherebbe dover ammettere che le partenze, verso l’Italia, dipendono poco da chi governa l’Italia (pull factor) e dipendono invece molto da quel che succede nei luoghi da cui partono i migranti (push factor). E non si può dire nemmeno con troppa forza che gli sbarchi sono diminuiti perché la triangolazione tra Italia e Europa, in Tunisia e non solo, ha funzionato: significherebbe dover ammettere, in modo crudo, che per governare l’immigrazione bisogna essere più europeisti e non più nazionalisti, e che dunque aprire le menti è più utile che chiudere i porti. Comunque la si guardi, l’estate del Duemivalentiquattro offre pessime notizie per tutti i professionisti della xenofobia. L’immigrazione si governa, non si ferma. I migranti servono, non vanno allontanati. E dire che all’Italia servono più immigrati è diventato non solo di buon senso ma anche popolare. E’ l’antisalvinismo, bellezza. Speriamo che duri.

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  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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