Jules Renard colpì al cuore dell’agonia romantica

A fine Ottocento si accaniva “nello studio del mio io, del suo decomporsi”. Parigi, il “Diario” radiografia del mondo, “Lo scroccone” che non risparmia nessuno

Repubblicano, anticlericale e socialista. “Amo gli esseri umani a seconda delle annotazioni che posso trarne”, scriveva. E di sé: “Avrei voluto essere uno di quegli uomini che avevano poche cose da dire e che le hanno dette in poche parole”. Riteneva che si potesse scrivere della campagna solo in città, infatti le “Storie naturali” le scrisse a Parigi – grazie a questo librino trafitto da un raggio di sole umoristico siamo venuti a sapere molte cose zoo-insospettabili: che la cavalletta è un carabiniere, che la gallina cammina come una persona scalza e che l’anatra femmina, col suo maschio, sembra sempre recarsi a un appuntamento d’affari; ma intanto, mentre lo scriveva, annotava: “Mi accorgo con stupore che non sono fatto per la campagna”. Perse tutti i capelli a trent’anni e morì a quarantasei, dieci anni dopo l’attribuzione della Legion d’onore. “La Legion d’onore: tante felicitazioni, come se si avesse partorito”, se la rideva nel “Diario” il 7 ottobre del 1900.

Nel frattempo lo scrittore George d’Esparbès lo descriveva così: “A prima vista, ha l’aria di un signore affettato, che diffida. Parla poco, ascolta, con l’occhio che sembra perduto sotto le palpebre, dilatato come certi occhi di rettili. Barba incolta e dura, d’un oro sbiadito, che si allunga a lingua di serpente. Una fronte convessa, di una possente protuberanza che schiaccia l’arcata delle sopracciglia”.

Questo signore che diffida, complimentato come una partoriente per un’onorificenza, questo amatore intermittente del prossimo, questo manqué della sintesi con la fronte che sporge, è niente meno che Jules Renard. Fascinoso ed empio maestro di “cruauté”, è uno dei nostri spietati preferiti, flaubertiano e dujardinista (nel senso di Édouard Dujardin, l’autore de “Les lauriers sont coupés”, il romanzo con cui James Joyce e Valery Larbaud lo riconobbero padre del monologo interiore).

Jules Renard fu un talento versatile e, dunque, anche teatrale: i due atti unici “Il piacere di dirsi addio” e “Il pane quotidiano”, scritti entrambi nel 1898, appartengono a quel genere di copione che consente, a chi è in platea, di mettersi comodo, di scordarsi di essere a teatro e di “sorprendere in flagrante la vita, al punto da sentirsi in imbarazzo a trovarsi lì” – lo disse il commediografo e amministratore della Comédie-Française Édouard Bourdet nel 1934 cogliendo appieno una caratteristica di Renard, uno dei pochi capaci di riprodurre sulla pagina la grazia di una conversazione che, per lo meno nel “Diario”, non conversa con nessuno, la grazia soliloquente e analitica appresa da Montaigne. “Ho l’anima da portiera che passa i suoi pomeriggi sulla soglia del portone”, scriveva nel suo “Journal”, fornendoci la chiave per comprendere la sua prospettiva senza eccessivi fronzoli.

Jules Renard – che è noto, quando è noto, per “Pel di carota”, ma non ce ne occuperemo qui – aveva diciotto anni quando venne pubblicato un romanzo fondamentale. Fondamentale non solo per capire oggi la sua epoca, ma fondamentale per Renard stesso, che visse e scrisse proprio là, in quel momento storico e sociale “al principio della peste” (copyright Alfredo Giuliani). Il romanzo era “Nella corrente” e lo scrisse Joris-Karl Huysmans. Racconta la formidabile e divertentissima storia di Jean Folantin, un omino che sbuffa di continuo “che vita impossibile!”, calvo travet che vagabonda in una Parigi in trasformazione, una Parigi mostruosa, deturpata e intossicata, costellata di madornali casermoni e immani padiglioni, alla ricerca di un ristorante in cui pranzare. Non riuscirà a mangiare decorosamente in nessuna bettola e nemmeno a sfuggire alla volgarità dei camerieri e della folla, torturato da difficoltà digestive e moti di repulsione misantropico-psicosomatica. “Va tutto a farsi fottere” è il querulo refrain di questo scapolo ipocondriaco, dandy mancato, flâneur senza leggerezza, Ulisse gastroenterico senza l’Itaca di una trattoria. “Folantin avrebbe fatto di tutto pur di non trovarsi in quel posto”. Eppure ci si trova, e sarà sempre voltastomaco.

Ma cosa, esattamente, andava a farsi fottere in quella Francia fin de siècle che vide l’affermazione di Jules Renard, maestro dello sguardo implacabile? Alle soglie del centenario della pubblicazione dell’opera per cui è noto e celebrato, cioé il “Diario” – uscito postumo ma scritto proprio in quegli anni, o meglio, scritto per oltre vent’anni – abbiamo la possibilità di inquadrarlo sempre meglio e di farcene irretire, godendo della sua crudeltà e gioendo dell’efferatezza della sua creazione letteraria migliore, ossia “Lo scroccone”, opera che non solo al “Diario” parla, ma in un certo senso, per tono e prospettiva, è come se ne facesse parte.

Ma torniamo a Folantin, prima di approdare a Henri l’écornifleur, il nostro parassita, perché il primo è la premessa del secondo, che vedrà la luce dieci anni dopo, nel 1892. Torniamo a Folantin e alle cronache di un parigino imbruttito da una Parigi bruttissima e pestilenziale, mercificata e improvvisamente sfigurata. Tutto finito: finita la Parigi dei passages, finita la Parigi di Chateaubriand, finita l’epoca della grazia e dell’innocenza, ecco che cominciano il trambusto insensato, l’estraneità inevitabile, l’esasperazione psichica, il disturbo nervoso, il disgusto per tutto e in particolar modo per la modernità. “In questa Parigi nuova, Folantin provava una sensazione di malessere e di angoscia”. Estraneità, malafede, malignità – solo la frustrazione caratterizzerà i rapporti umani da lì in avanti?

E insieme a Parigi finisce anche la sensazione che la vita possa essere racchiusa narrativamente in un gesto solo, un gesto unanime, una visione sistematica, definitiva e indivisibile, grande aspirazione inscalfibile di tutta la letteratura precedente. Finito un mondo, ne inizia un altro. E il nuovo appare, già ai primi vagiti, frammentato, impossibile, fatto di frantumi che si possono solo constatare, un mondo andato in mille pezzi che non si ricongiungeranno mai più. Attraverso quali epopee potrà essere dunque raccontato? Esiste un personaggio letterario che lo possa accogliere in sé e restituire in forma di romanzo? Finita anche l’epopea? Finito il romanzo?

Jules Renard colpisce freddamente proprio qui: al cuore dell’agonia romantica di un mondo che, da questo momento in poi, dal capezzale fino alle ceneri, permetterà solo una risata secca, aspra, capace di cogliere, come in un’istantanea, le sue intermittenze irraccontabili, i suoi stridori. Niente sarà più raccontabile nel senso fin lì sperimentato. E dunque? Essere scarni, essere cattivi. Essere implacabili davanti alla caduta massi. Non più spettatori attoniti e risentiti, ma testimoni impassibili disposti all’iniezione letale: da Folantin a Henri lo scroccone, dall’esecrazione dispeptica al rasoio avvelenato, dal parlare delle foglie morte, al rendersi conto che sono morte veramente, per dirla con una parafrasi renardiana.

“Accanito nello studio del mio io, del suo decomporsi, del nostro nulla”, scrive Renard nel 1889. “Si lascia indietro, quanto a crudeltà, Bouvard e Pécuchet”, annota sempre nel suo “Diario” Jules Renard, riferendo un commento del pittore Forain a proposito del suo romanzo. E, come racconta Alfredo Giuliani nella sua postfazione all’edizione Adelphi de “Lo scroccone”, pare che Anatole France avesse detto a Marcel Schwob: “Libro ammirevole, ma come faccio a parlarne ai miei lettori?”. In realtà ne parlerà. Lo farà nel 1894, quando ne uscirà la seconda edizione, e definirà Jules Renard “il più sincero dei naturalisti”, precisando che la crudeltà esercitata in pubblico si chiama sincerità o verismo.

O vivacità percettiva: Renard non risparmia al mondo la propria ipersensibilità insensibile. Sa che prima di tutto viene il dovere analitico, anche verso sé stesso. “Se avessi talento, verrei imitato. Se mi si imitasse, diventerei di moda. Se diventassi di moda, passerei di moda. Meglio non avere alcun talento”. E poi, poche pagine dopo: “Chi dice letterato dice divoratore di colleghi”.

Un appunto del 16 dicembre 1897 trafigge un altro scrittore. “Alphonse Daudet è morto”, scrive. “Quando si andava via da casa sua, vi tagliava subito i panni addosso in combutta con quelli che non se n’erano ancora andati. Quando si era giunti in fondo alla scala, si aveva la sensazione di essere ormai completamente nudi”. Non raro l’elogio, come nel caso di Sacha Guitry: “Guitry racconta bene. Non ha mai paura. Ogni volta che dice una bugia non è il suo naso che trema: è il mio”. Qualche saporita maldicenza: “Toccando la mano di Edmond de Goncourt sembra di toccare un piumino bagnato”.

Il “Diario”, che copre un arco che va dal 1887 al 1910, è una radiografia del mondo, e il mondo proprio si confonde con quello degli altri. “L’uomo non è che la metà di un imbecille”, diagnostica Renard. È un’opera disseminata di osservazioni minute e pensieri grandi, appunti occasionali e autopsie micidiali, citazioni fulminee e citazioni di citazioni. “Baudelaire, in una birreria, esclamava improvvisamente: ‘Qui c’è odore di distruzione!’”.

Il “Diario” è una costruzione continua in cui tripudiano, senza dar mostra di sé, intelligenza, acume, e soprattutto impassibilità. “Oggi ho la testa di cemento e il cervello di gesso”. Si parla della morte del padre e dell’impaccio per i doveri del lutto, della vita famigliare e della vita letteraria, di anime che mettono pancia ossia dei destini di alcuni scrittori bohémien adattatisi senza impacci al cameriere in livrea che consegna la posta a colazione su un vassoio d’argento, e poi della miseria e della nobiltà umana, degli alberi che conoscono il mistero dell’acqua, dei rapporti difficili e inestricabili con Edmond Rostand. Un ruvido consiglio a Goncourt, autore di un “Diario” che, secondo Renard, peccava di reticenza, suona così: “Quel che vi manca è la descrizione di voi stessi così come avete fatto quella degli altri” – glielo disse proprio, nei corridoi della casa editrice Ollendorff.

Predica, Jules Renard. Ma razzola. “Cosa voglio dunque?”, scrive. “Viaggiare il mondo. Ma occorrerebbe essere illustre. E occorrerebbe lavorare per diventarlo. Fai attenzione. In questo momento stesso tu esageri. Tu hai delle frasi! Non sei già più sincero. Appena vuoi guardarti in uno specchio, il tuo fiato lo appanna”. Il codice Montaigne guida sempre lo squarto. “A che punto sono?”, scrive l’1 gennaio 1898. “Ho trentaquattro anni e un certo nome, un nome che nulla impedisce possa diventare un gran nome. Potrei guadagnare parecchio denaro ma non ne guadagno. Io non faccio niente per i miei amici. Sono vecchio di anima come mio padre lo era di corpo. Cosa aspetto a uccidermi?”.

Nel 1892, anno di uscita de “Lo scroccone”, la storia di un convitato inamovibile che truffa i Vernet, tipica famiglia medioborghese dell’epoca, succhiando risorse e vivendo sulle loro spese, nel “Diario” trapela una certa inquietudine di Renard rispetto al romanzo. “Non leggo nulla per paura di trovare qualcosa di buono”.

Dopo aver letto il “Diario”, è possibile collocare “Lo scroccone” in solida continuità, quasi fosse un giro largo che il suo “Journal” si prende – in fondo “Lo scroccone” è il diario di uno scroccone che racconta freddamente la propria strategia. Gli episodi salienti di questo raggiro vedono Henri abilissimo a sfruttare le debolezze di monsieur Vernet, un mediocre che desidera “star vicino a un intellettuale”, e di madame Vernet, che in lui vede un figlio e che Henri tenterà invece di sedurre sfruttandone il bovarismo in sedicesimo. Non è finita: lo stesso scroccone è il truffatore di sé stesso, giacché si sente un letterato ma è munito di tutto meno che di un romanzo, a cui non si sogna mai di lavorare. Il tono è lo stesso del “Diario”, e ugualmente efferato il sarcasmo. “Già ho timore del mare, della meraviglia di questo mondo che ha causato i massimi deliri”, ci dice Henri non appena arriva nella località delle vacanze coi Vernet. I suoi strali, pagina dopo pagina, non risparmiano nessuno: la famiglia, i luoghi comuni, le illusioni individuali, la normalità, le gite di piacere, le teorie, la malinconia, le chiese – “io passeggio e ammiro il cattolicesimo, non come religione ma come poesia”. Nell’anno in cui uscì il suo capolavoro, nel “Diario” Jules Renard presagì: “Irriterà molta gente. Ha irritato anche me”. Poi affonda la lama: “Penso di non essere stato sincero. Lo sono stato troppo, per riuscirci”.

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