Il dannunzianesimo non è finito con il fascismo

Tra gli anni Sessanta e Settanta, il complesso del Vate, che è alla base della costituzione psichica dell’esteta-guerriero italiano, è riaffiorato. Specie a sinistra, dove abbiamo avuto alcuni criptodannunziani con il mitra in pugno

Se Las Vegas è nota per i suoi finti Elvis Presley, l’Italia può vantare una tradizione di sosia di Gabriele D’Annunzio. Uno di essi colpì l’attenzione di Alberto Savinio nella Firenze degli anni Trenta: “Passava tra le cinque e le sei per via Tornabuoni reggendo due levrieri al guinzaglio, e dalle opposte rive del Giacosa e del Doney gli elegantoni lo salutavano con deferenza, felici essi pure di riverire, in mancanza del vero D’Annunzio, il simulacro di lui”. Trovo questo aneddoto nel bel saggio della storica Elena Papadia sulle “borghesie dannunziane” che apre il volume Effimero Novecento, pubblicato di recente dal Mulino. Papadia vede splendere l’astro del dannunzianesimo per mezzo secolo buono, tra la fine dell’Ottocento e gli anni Quaranta. Storicamente ha ragione. Ma io sono incline a pensare che la caduta del fascismo abbia segnato solo un’eclissi più o meno prolungata, diciamo pure un periodo di latenza freudiano. Dopodiché, tra gli anni Sessanta e Settanta, il complesso del Vate, che è alla base della costituzione psichica dell’esteta-guerriero italiano, è riaffiorato sotto vesti mutate, rese irriconoscibili dalla rimozione. Specie a sinistra, dove abbiamo avuto alcuni criptodannunziani con il mitra in pugno – il caso più eclatante è il brigatista Valerio Morucci – e molti altri armati solo di penna. Da allora i sosia inconsapevoli di D’Annunzio si sono moltiplicati, e a un nuovo Savinio basterebbe un colpo d’occhio per riconoscere lungo le vie di Roma i loro volti silvani, mentre passeggiano sotto la pioggia nel Pigneto.

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