Lino Jannuzzi, un senatore avventuroso. Ultimo episodio

Conseguenze del caso Sifar: Jannuzzi e Scalfari vanno in Parlamento. Come fu (proditoriamente) fatto fuori dall’Espresso. Una carriera nel cinema quasi perfetta e altre feste, altri viaggi

Nel 1998 Mattia Feltri scrisse per il Foglio una lunga biografia dialogata di Lino Jannuzzi. Pubblicata a puntate e poi raccolta in un libro arricchito dalle vignette di Vincino, “Jannuzzi – Settant’anni di finzioni e di avventure”. Venerdì 9 agosto abbiamo ripubblicato la prima puntata, “Lino, finzioni e avventure”, la seconda, “Tra Napoli e la goliardia”, è uscita sabato 10, la terza, “Da Mondadori a Scalfari”, martedì 13, la quarta, “La vera storia del caso Sifar”, mercoledì 14 agosto, la quinta, “Dolce vita e fieste mobili”, giovedì 15 agosto.

A Lino non gli passava nemmeno per l’anticamera del cervello, lui che era essenzialmente cronista parlamentare, di candidarsi al Senato. Ma s’era consultato con gli avvocati, e gli avevano spiegato che non c’era altro modo – se non la latitanza – di sfuggire al carcere cui era stato condannato per gli articoli sul Sifar. Poi gli amici lo incoraggiarono, gli arrivarono buone offerte dai socialisti, considerò che il titolo di senatore gli sarebbe calzato a pennello, e si presentò. L’idea era venuta a Pietro Nenni. Un posto fu offerto anche a Eugenio Scalfari, correo. Nenni disse a Jannuzzi e a Scalfari di spartirsi le circoscrizioni per la Camera di Milano e Torino, dove lui era capolista, e dove avevano più possibilità di passare. Giacomo Mancini pensò invece che per Lino fosse meglio candidarsi al Senato al sud. Mancini prevedeva una forte avanzata del Psi, favorito dall’occasionale lista comune coi socialdemocratici di Giuseppe Saragat. Fu la salvezza sia per Scalfari, primo dei non eletti e ripescato a Montecitorio, sia per Jannuzzi, passato nel collegio senatoriale di Agropoli. Era il 1968.

Scalfari, primo dei non eletti e ripescato a Montecitorio, Jannuzzi, senatore nel collegio di Agropoli. Era il 1968



Lino aprì la campagna elettorale proprio ad Agropoli. La piazza era colma di gente che Lino ricorda scettica e forse pure minacciosa. Lino salì sul palco a fianco del deputato locale, Raffaele Annunziata, padre di Lucia. Fu l’onorevole Annunziata a prendere la parola e a presentare l’amico: “Compagni, qualcuno di voi storce il naso davanti alla candidatura di Lino Jannuzzi. Dite che viene da Roma per cui e uno straniero, e dite che è stato condannato per cui è un criminale. Ebbene, Lino Jannuzzi non è criminale perché la sentenza è di primo grado e non definitiva. Non è criminale perché ha svelato con audacia i peggiori intrighi di palazzo, e dovremmo essergliene grati. E infine non è straniero, perché viene da Roma, è vero, ma è nato a due passi da qui, a Grottolella, in Irpinia”.



Il discorso, per quanto appassionato, non fu efficace, osserva Lino. In particolare non fu felicissimo il riferimento ai suoi natali, perché risvegliò nella folla bellicosi sentimenti campanilistici. L’avversione stava progredendo in manifesta ostilità, e Lino avrebbe mollato tutto se l’alternativa a Palazzo Madama non fosse stata Poggioreale. Impugnò il microfono e cominciò: “Compagni, debbo dirvi, con tutta l’onestà di cui sono capace coi miei precedenti penali, che mi sentirei un verme se al primo contatto con voi non dicessi la verità fino in fondo. Ebbene sì, sono straniero e sono criminale. Come era straniero e criminale Carlo Pisacane, che è venuto per riscattarvi e che voi avete ammazzato”. Bastò questa frase, che andrebbe letta in tono crescente, a cambiare le cose. Lino non poté aggiungere altro; fu travolto dagli applausi, preso per le gambe e portato in trionfo fino alla più vicina osteria, dove si ebbe un primo e abbondante assaggio dell’innovativa campagna elettorale pensata da Lino.



Nel volgere di quarantotto ore furono stampate centinaia di manifesti con lo slogan elettorale: “E’ tornato Pisacane”. La scritta sovrastava la foto di Lino col figlio Ciccio in spalla. La gente impazziva perché una campagna così, all’americana, non s’era mai vista. Lino girava tutti i paesi – “ed erano settanta, mica due” – col furgone seguito da un corteo di macchine occupate dallo staff. Teneva i comizi alla mattina e alla sera. Raggiungeva il centro della piazza col furgone, poi ci si arrampicava e prendeva ad arringare la gente su qualsiasi materia, tranne quelle politiche. I suoi avversari, siccome gli uomini erano nei campi o nelle fabbriche, la mattina non si facevano vedere; Lino, invece, arrivava strombazzante nei paesi, anche quelli arroccati sulle montagne, prima del desinare. Le donne e i vecchi, fino ad allora tenuti ai margini della vita politica, accorrevano guardinghi, poi elettrizzati. La popolarità di Lino fra le massaie e i pensionati raggiunse vette sino ad allora inviolate.



La sera, Lino si dedicava agli uomini e ai giovanotti. Trasferiva pertanto le adunate dalla piazza alla trattoria, dove proponeva formidabili argomentazioni a sostegno della propria candidatura. La comunità intera era sua ospite; tuttavia accettava il sostegno dei simpatizzanti. E i simpatizzanti sostenevano a sufficienza perché Lino saldasse le pendenze col ristorante e anche con l’osteria, dove generalmente il congresso viveva l’epilogo. Il prologo, invece, toccava i suoi momenti più alti con la visita degli amici di Lino: i frequentatori dei fastosi salotti di piazza di Spagna si sentirono in dovere di fare quello che potevano. Cioè moltissimo: a fianco di Lino apparvero, a turno, personaggi come Claudia Cardinale, Monica Vitti, Adriano Celentano… La gente, abituata a veder gli attori alla tivù del bar, credeva di essere capitata nel paese della cuccagna. In quella giostra ambulante, la colonna sonora era affidata alla povera Mia Martini, che cantava con voce struggente e lasciava alla scatenata e sinuosa sorellina – presto famosa col nome di Loredana Bertè – i ritmi più focosi. Discinte ragazze vendevano il libro in cui erano raccolti i migliori reportage di Lino, “Le mie battaglie”, prontamente ribattezzato dai missini in “Le mie bottiglie”. Lino accettò l’ironia, vista la gradazione delle sue convention cilentane.

A fianco di Lino, Claudia Cardinale, Monica Vitti, Celentano… Sembrava il paese della cuccagna.



Jannuzzi divenne senatore del Psu e Scalfari deputato. All’Espresso, Scalfari fu spodestato immediatamente. “Io gli avevo sconsigliato di andarsene. Gli dissi, Eugenio, rimetti la responsabilità giuridica a un vicedirettore ma tu non dimetterti”, ricorda Lino. E ricorda anche che a Scalfari gliela fecero sporca. E, come spesso succede, a fargliela sporca furono i suoi amici, o presunti tali. Ecco come andarono le cose. Il peccato originale fu proprio di Scalfari. Aveva assunto la direzione dell’Espresso nel 1963, quando Arrigo Benedetti lasciò per dedicarsi alla letteratura. Benedetti era arrivato giovanissimo a Roma, dove sperava di diventare un grande scrittore. Intraprese la carriera di giornalista quasi per caso, chiamato a Omnibus da Leo Longanesi, nel 1937. Aveva ventisette anni e altri sogni. Pensò di coltivarli quando ormai era un direttore affermato e poté permettersi il privilegio di ritirarsi in campagna a scrivere romanzi. Da Lucca continuava a collaborare all’Espresso con commenti tramite i quali determinava la linea del giornale più di chiunque altro, Scalfari incluso. E a Scalfari, un giorno, non piacque la posizione di appoggio a Tel Aviv presa da Benedetti in occasione del conflitto arabo-israeliano: a fianco dell’articolo di Benedetti ne pubblicò uno suo, per correggere il tiro e dire che in via Po la pensavano in altro modo. Fu l’ultimo articolo di Benedetti sull’Espresso. Jannuzzi: “Quella volta Eugenio fece una porcheria, devo dirlo. Con Benedetti non avevo rapporti, ma se al suo posto ci fosse stato Pannunzio, mi sarei dimesso”.



Scalfari fu un direttore particolare. Amava il ruolo di primus inter pares, ricoperto in specie durante le interminabili riunioni tenute per impostare il giornale. L’impressione, dice Lino, è che fosse ansioso di conquistare sul campo la leadership usurpata. E infatti con lo stesso Lino, con Carlo Gregoretti, con Sandro Viola e con altri si comportava più da amico che da direttore. Col tempo i suoi luogotenenti diventarono, in particolare, Gianni Corbi, Nello Aiello e Livio Zanetti. Furono questi tre a fargli notare che, da deputato, era diventato incompatibile col giornale. Scalfari aveva sempre predicato la superiorità della società civile sull’arena politica, la corruzione del palazzo, la missione del giornalista che dev’essere sentinella del potere e non colluso a esso. Non seguì il consiglio di Lino. Preferì la coerenza e si dimise. Direttore divenne Corbi, poi Zanetti. Si disse che, terminata l’avventura in Parlamento, Scalfari avrebbe riavuto il suo posto; non gli fu mai restituito. Non fu l’unico a ricevere il trattamento. Nel 1974, il caporedattore dell’Espresso era Carlo Gregoretti. E quell’anno successero fatti interessanti. Così li ricorda Gregoretti.



Jannuzzi fece una sola legislatura, dal 1968 al 1972. In quegli anni fu anche deputato europeo, carica che veniva conferita dal Parlamento e non dagli elettori. Era spesso in missione all’estero, e ne approfittava per inviare le sue corrispondenze all’Espresso, con cui mantenne un rapporto abbastanza solido. Infatti nel ’72 rientrò come coordinatore del servizio politico. Era un periodo in cui si dibatteva sull’opportunità di trasformare il settimanale in un patinato di dimensioni ridotte – com’è ora – e alla fine la riforma si varò. Il successo fu eccezionale e immediato: le vendite, prima intorno alle centomila copie, triplicarono. Il giornale arricchì e Zanetti, diventato direttore, volle potenziarlo. Approfittò della crisi di Paese Sera, quotidiano comunista ortodosso, per avere a buon prezzo numerosi cronisti.



L’Espresso divenne una corazzata, ma lo spirito laico, liberale di sinistra, un po’ snob e molto raffinato che era nella sua tradizione, cominciò ad annacquare. “Questi nuovi giornalisti erano attaccati al telefono tutto il giorno, sempre in contatto con Botteghe Oscure”, dice Gregoretti. E perdeva le staffe, Gregoretti, perché era una schifezza, perché il giornale stava cambiando, perché questi nuovi volevano dettar legge. Jannuzzi non si incazzava: “Vabbè, figlio mio, che ti frega, questi so’ stronzi, non contano un cazzo…”.

L’Espresso divenne una corazzata, ma lo spirito laico, di sinistra, snob e raffinato cominciò ad annacquare.

Nell’estate del 1975, un quotidiano pubblicò un trafiletto. Si parlava di Lino Jannuzzi e di un’inchiesta aperta a suo carico per lo scandalo dei fondi Gescal. L’addebito era di aver mediato un fraudolento passaggio di fondi. Sulla base di questa notizia, Jannuzzi fu fatto fuori. Gregoretti e gli altri, in omaggio alla vecchia amicizia e alla bandiera del garantismo, si opposero al licenziamento e alla sospensione. Zanetti approvò il compromesso e affidò a Lino una lunga inchiesta sul socialismo europeo, dal Portogallo di Mario Soares alla Svezia di Olof Palme. All’interno del giornale, però, c’era chi premeva per una soluzione più drastica, poiché formalmente il capo del “politico” era ancora Lino, nonostante le accuse rivoltegli fossero infamanti. Una mattina, senza preavviso e senza attendere un chiarimento della vicenda, Zanetti sollevò definitivamente Lino dall’incarico. Al suo posto fu nominato Cesare Flesca. Gregoretti si dimise. Lo seguirono, il giorno successivo, quindici della vecchia guardia. L’Espresso non fu mai più quello di prima. (L’inchiesta venne archiviata. Lino prosciolto).



Scalfari si era dato alla politica con entusiasmo, ma con i compagni del Partito socialista non legò mai. In particolare, non legò con Bettino Craxi. Debuttarono a Montecitorio insieme, nel ’68, ma Craxi dopo una lunga gavetta, Scalfari in seguito a una condanna penale. Si dice che Craxi non la digerì mai e nacque una storica rivalità.


Scalfari si affratellò ad Antonio Giolitti, ma la corrente di Giolitti contava i voti di Giolitti e della figlia di Giolitti. “Emarginato all’Espresso ed emarginato nel partito, Eugenio visse un periodo di grande depressione. Fu allora che cominciò a pensare al quotidiano”, racconta Lino. Scalfari, spesso di stanza a Milano, partiva la sera tardi e arrivava a Roma che era ormai notte. Andava a cena con Lino e gli illustrava i suoi progetti. Poi andavano da Plinio, dove Scalfari, avendo la disponibilità di un pianoforte, suonava leit motiv di “Casablanca”. Per alcune coincidenze, Lino non approdò mai a Repubblica, e il suo sodalizio con Scalfari tramontò.



“Ora credo di poter fare un bilancio del mio rapporto con lui. Intanto, di Scalfari si può dire tutto, volendo. Anch’io dirò la mia. Però fra tante opinioni restano i fatti. Un fatto è che l’Espresso è stato un settimanale inimitabile. Un fatto è che con la Repubblica ha superato il Corriere della Sera. Solo lui c’è riuscito. Un fenomeno. Poi si potrà criticarlo dal punto di vista umano, politico, persino giornalistico, specie ora che non mette giù la penna sinché non ha scritto venti cartelle; ma è stato un grandissimo direttore, un direttore davanti a cui tutti devono inchinarsi. E io mi inchino”.



“Con Eugenio ho trascorso un sacco di anni. Abbiamo condiviso avventure come quella dell’Espresso, battaglie come quella del Sifar, ideali come quelli del Partito radicale di Mario Pannunzio. Abbiamo fatto cose importanti, insieme, e persino le villeggiature a Positano. Che strano, alla fine si scopre che la pensiamo in maniera diametralmente opposta. Sulla politica, sulla giustizia, su tutto… Ci ho pensato spesso… Siamo andati cosi d’accordo… Ma io mi sono convinto che lui sia essenzialmente un uomo solo, perché tutti i grandi giornalisti, in finale di carriera, si scoprono storici o saggisti, ma lui si è addirittura scoperto filosofo… e ci crede, pare. La sera, per dire una cattiveria in più, ci diciamo che finirà in convento… Ma non sarò mai d’accordo con chi lo definisce un opportunista, una canaglia, un voltagabbana: i suoi approdi sono coerenti con tutto il suo sviluppo di giornalista censore, che bacchetta, maestro di vita… Ha sempre detto male dei politici… la corruzione, lo schifo… e quindi il compito quasi morale del giornalista… la virginea sentinella della libertà… Che stronzate… S’è visto, con buona pace di Scalfari, che questa nostra categoria, che vergogna, che coraggio a dar lezioni di moralità… servi e leccaculi dei corrotti, pronti a prenderli a calci nella schiena appena cadono in disgrazia… Scalfari, lui, ha fatto tutta questa parabola verso la filosofia perché la pensa così… il mondo è marcio… i puri sono pochi e gli amici l’hanno pugnalato alle spalle… è un uomo solo”.



“Film non riuscito, ma rispettabile. Giancarlo Giannini ha fatto una scelta registica rischiosa puntando su una scrittura dilatata, tutta effettata, ma il difetto è nel manico, cioè in un copione sconnesso e dissestato di Lino Jannuzzi”. II giudizio è del “Morandini”, il dizionario dei film della Zanichelli, e si riferisce a “Ternosecco”, pellicola del 1987. Jannuzzi ammette che con Giannini non agli andò bene come invece gli era andata con Orson Welles a Pamplona, ma dice che nel cinema lasciò ben altre tracce. II suo rapporto d’amicizia con Francesco Rosi lo portò infatti non soltanto a tenere i salotti coi migliori ospiti, ma anche a lavorare a Cinecittà. Per Rosi sceneggiò “Lucky Luciano”, e lo sceneggiò benissimo. Lino conobbe Lucky Luciano. Erano gli anni Cinquanta, a Napoli. Il glorioso boss era il museo di sé stesso, impietosamente irriso dai più giovani, cui non importava niente del passato e si facevano forti del presente. Lino e Lucky Luciano andavano a mangiare al California, e Lucky Luciano gli raccontava degli anni ruggenti in America. Così, quando fu il momento di scrivere la sceneggiatura, Lino si buttò con entusiasmo. II film, del 1973, è bellissimo, come è molto bello “Cadaveri eccellenti”, sceneggiato da Lino nel 1975 dal romanzo “Il contesto” di Leonardo Sciascia. Lino è molto orgoglioso di questa sua parentesi. Lo dimostrò dirigendo “II Giornale di Napoli” su cui pubblico una sua foto in compagni di Rosi. Gli amici raccontano che la didascalia era questa: “Francesco Rosi in compagnia di Lino Jannuzzi, sceneggiatore dei suoi film. Quelli belli”. Per Lino, sono “menzogne”.

Divenne sceneggiatore per il cinema, i successi con Francesco Rosi, il film sulla vita di Lucky Luciano.



Ci fu un tempo in cui Lino Jannuzzi ebbe per sé la più bella donna di Roma. Lui era il principe della goliardia, l’autore del romanzesco scoop sul Sifar, l’amico di Orson Welles e Leonardo Sciascia, l’ex senatore. Lei era soltanto molto bella, ma bastava. Poi, per la verità, era anche famosa e nobile. Una contessa. Oggi di lei si sa del suo impegno sincero e un po’ chiassoso per i terni ambientalisti e che ha una figlia radiosa impegnata nel cinema. Allora si sapeva che era incantevole, appassionata, simpatica e impulsiva. Conobbe Lino e ne fu stregata. Lui si concesse una scappatella, anche se non era il tipo capace di mettere a repentaglio un matrimonio esemplare per un capriccio d’alcova.



Si racconta, ad esempio, del 1969. Lino era in Cecoslovacchia per seguire, da parlamentare e giornalista, i funerali di Jan Palach. Enzo Bettiza gli mise alle costole una ragazza bella, vivace e affascinata dalla cultura occidentale. Lino, un buono, anziché venti dollari gliene ammollo cinquanta. Non se ne liberò più. Alla mattina scendeva dalla stanza d’albergo per la colazione, e quando i colleghi gli domandavano come andasse con la fanciulla, rispondeva: “Madame, non so se è morta, ma dorme da quarantotto ore”. Madame si era ricoverata nella stanza di Lino e si svegliava soltanto per ordinare qualcosa da mangiare. Lino non ebbe né cuore ne voglia di chiederle ciò che si presumeva offrisse, ma del resto lei – trovato vitto e alloggio gratuiti – non sembrava intenzionata a darsi da fare più di tanto: lasciò l’albergo quando Lino rimpatriò, intonsa. È una storia, questa, considerata dal diretto interessato come il parto di una mente fantasiosa e soprattutto maligna.


Intelligenze non meno malvagie, secondo Lino, avrebbero infiocchettato questa sua relazione con la contessa, cui lui non vuole fare accenno per ragioni di rispetto e di riservatezza. Che il Foglio, per completezza dell’informazione, si vede però costretto a violare, seppur a malincuore e parzialmente. Ebbene, quello fu un amore appassionato, fatte le proporzioni fra lei accesa d’ardore, e lui molto sportivo e compiaciuto. Cene, festicciole, weekend. Qualche regalo. Qualche lettera. Lei generosissima e travolgente. Lui di una galanteria moltiplicata fino all’inverosimile dal pettegolezzo: una mattina, Lino lasciò la suite nella quale aveva trascorso la notte con la nobildonna e vi rientrò con una borsa colma di petali di rosa, e di essi ricoprì le nudità dell’amante stesa sul letto; altri raccontano l’episodio sostituendo i petali di rosa con banconote da diecimila lire, ma il succo non cambia.

Ne parlava tutta la città, e quindi presero a parlarne anche i giornali. Lino negava per difendere Mariolina e il matrimonio con lei. Infine non volle correre rischi, e pose fine al filarino. La contessa, però, persuasa di vivere non certo un’avventura, bensì d’aver trovato l’uomo della sua vita, non la prese benissimo. Ecco che cosa successe, secondo le ricostruzioni di alcuni testimoni solitamente attendibili. Successe che Lino abbandonò in punta di piedi la suite, affidando alle parole scritte – il suo forte – il compito di spiegare, di illustrare il rammarico, di mettere due persone adulte davanti alla realtà, di considerare il destino e le opportunità future e le famiglie e i bambini piccoli e la bellezza di lei e i suoi tanti spasimanti e avrebbe trovato la persona giusta e quanto lui l’aveva amata e il dolore e lo sconforto e il non poterci fare niente e quest’ultima carezza e l’addio…. Lei impugnò un grosso candelabro di ferro battuto e sfasciò la stanza. La sfasciò con una certa meticolosità, non risparmiando una suppellettile e accanendosi sugli specchi e sui mobili e persino tagliuzzando la tappezzeria dei divani. Dopo di che uscì nei corridoi, senza addosso un solo petalo di rosa, gridando terribili invettive e formulando minacce fra le più agghiaccianti. Infine si abbandonò sulla ringhiera delle scale, singhiozzante; un cameriere la copri con un lenzuolo e la sentì mormorare: “Lino, non puoi lasciarmi così…”.



Non è finita. La contessa si riebbe. Rientrò in camera, si fece una doccia, bevve un whisky. La sera, vestita di tutto punto, si presentò alla porta di Lino, preso da un’occasione conviviale. Lei aveva gli occhi fuori dalle orbite, il cappello di traverso e i peggiori propositi; per fortuna i commensali di Lino furono solleciti e persuasivi, e la scenataccia evitata. La contessa col tempo se ne fece una ragione e oggi, quando incontra Lino, lo saluta con cortesia.



Quello era il periodo in cui Lino, tradito dall’Espresso, aveva dato vita a Tempo illustrato con Marco Gregoretti e gli altri della diaspora. Era il 1975. Il settimanale era bello e apprezzato, e quindi venduto. Settanta-ottantamila copie. Il sufficiente per mantenersi e progettare. Intanto Eugenio Scalfari aveva fondato la Repubblica e gli inizi furono per lui una sofferenza: faceva fatica ad arrivare a fine mese, e sembrava che il giornale potesse chiudere da un giorno all’altro. Ecco, paradossalmente la più apprezzata novità editoriale di quel momento fu Tempo illustrato, non Repubblica. Ma Tempo illustrato durò poco, innanzitutto perché l’assetto societario non era dei più solidi, poi perché il periodico era diretto da Lino, che in quanto a genialità è secondo a pochi, ma non è uno disposto a tirare la carretta da mattina a sera come richiede il caso di una nuova pubblicazione. “Mi toccava di dormire in redazione. Diciamo che non è nella mia indole”. Per. cui, quando si presentò l’opportunità di chiudere Tempo illustrato in una situazione di bilancio sanissima, in pochi si opposero, e fra essi non c’era Lino. Il quale, fra l’altro, aveva pianificato una serie di escursioni in Spagna con Leonardo Sciascia. I due condividevano la passione per la Guerra civile spagnola, e intendevano riviverla raggiungendo i luoghi simbolo di quel conflitto. Andarono a Toledo dove ci fu il lungo assedio dell’Alcazar, e dove Francisco Franco fu tra i pochi superstiti; andarono nella Sierra de Guadarrama, dominata dai repubblicani e raccontata anche da Ernest Hemingway; andarono a Guadalajara, dove i volontari del battaglione Garibaldi incrociarono le armi con il corpo di truppe volontarie di Benito Mussolini; andarono a Belchite, nei dintorni di Saragozza, dove i repubblicani ebbero una straordinaria controffensiva; andarono a Santander, la città conquistata dai fascisti italiani; andarono a Madrid, a bere gin and tonic al Cicote, il caffè che fu di Hemingway e dei repubblicani. Girarono Barcellona e tutta la Catalogna con George Orwell in tasca. A volte c’ erano anche Giacomo Mancini e Pietro Nenni, il quale si abbandonava ai ricordi di quando aveva combattuto in Spagna ed era in contatto coi comunisti di mezza Europa e pure con Palmiro Togliatti, allora in Spagna come rappresentante del Comintern.


Di quei viaggi il più entusiasta era Sciascia. Jannuzzi: “Discutevamo su che cosa era stato e poteva essere l’antifascismo, e la guerra di Spagna era quanto di più emblematico e avvincente ci fosse. C’era stata la vigliaccheria delle democrazie occidentali, che non intervennero contro Franco; c’era il dibattito su quanta il franchismo fosse coinciso col fascismo, di recente riproposto da Sergio Romano; c’era la questione dei comunisti, che si consideravano gli unici veri antifascisti: cercarono di monopolizzare la guerra antifranchista e per monopolizzarla fecero fuori gli anarchici e spararono alle spalle dei socialisti libertari, finendo col favorire la vittoria del Caudillo. Così Sciascia smitizzò il sacrificio dei comunisti in Spagna, e oggi lo si fa con disinvoltura, ma allora era bestemmia. C’era, quindi, la figura dell’intellettuale antifascista che però non se la sente di sposare incondizionatamente la causa egemonizzata dai comunisti, ed era, questa, la grande tragedia degli uomini colti, dei grandi letterati come Garcia Lorca, come Manuel Machado, come Manuel Azafia. Recitavamo “Pobre Granada”, “A las cinco de la tarde” e leggevamo Andre Malraux… Tutto, c’ era davvero tutto…”.



Francisco Franco sarebbe morto pochi mesi dopo, e Lino partecipo in Spagna al congresso del partito socialista clandestino; andò con Mancini, Nenni e Sciascia, e parlò a lungo con Felipe González. In realtà Lino si stava staccando dai socialisti, nonostante l’amicizia con Mancini fosse molto solida. Era cominciata, in un certo senso, vent’anni prima: Lino aveva interrotto per scommessa i lavori di un congresso; si era spacciato per un delegato di Ho Chi Min (in quei giorni in visita a Parigi), del quale doveva portare il saluto. Lino aveva parlato pochi minuti in un italiano stentato, e se ne stava andando fra due ali di folla plaudente quando venne riconosciuto da Francesco De Martino, docente all’Università di Napoli: “Mannaggia, ma chillo non c’entra nu cazzo co’ Ho Chi Min, chill’è Jannuzzi!”. Lino fece appena in tempo a tagliar la corda. Mancini gli ricordava spesso la bravata, e ci ridevano sopra.



Ma in quegli anni Lino si dedicò al cinema, scrivendo sceneggiature per Franco Rosi e Pasquale Squitieri. E si dedico al poker. I compagni di gioco erano più o meno sempre gli stessi. C’era Sofia Loren, non bravissima e poco propensa allo sperpero; c’era Nori Corbucci, la moglie del regista, fortunata e ancor più brava; c’era Adriano Celentano, non eccelso; c’era un Bertolucci, produttore, cugino del Bernardo regista; c’ era Renato Salvatori, un professionista che arrivava alle serate in tuta dopo un adeguato training: non beveva e non fumava, a differenza degli altri, e alla fine vinceva. Portava anche la moglie, Annie Girardot, che Lino ricorda “non bella, perché bella non era, ma di fascino impareggiabile”. Quando capitava, Lino si faceva uno scopone scientifico con Ciriaco De Mita e quelli del suo giro, e se passava da New York era sempre ospite al tavolo da gioco di Ugo Stille e Jas Gawronski.



“Per tornare a noi, mi stavo allontanando dai socialisti. Ma neanche io sapevo che avrei ripreso a brigare con Marco Pannella…”. Era dei tempi dell’Ugi eppoi del Partito radicale di Mario Pannunzio che lui e Pannella si frequentavano sporadicamente. Pannella aveva riesumato il partito di Pannunzio e aveva dovuto affrontare una traversata nel deserto più lunga del previsto. “Nemmeno le campagne referendarie ebbero successo immediato”, dice Lino ricordando che Pannella non aveva comunque grande udienza sui giornali. Lo stesso Scalfari tollerava a mala pena di leggere sull’Espresso la parola “radicale” e si incazzava come una bestia se ne leggeva altre due: “Marco Pannella”. Fu Lino a rompere l’embargo dell’Espresso insistendo sulla campagna referendaria per il divorzio: “Portai Nilde Jotti al ristorante, la feci bere più di quanto dovesse e le feci dire che militava in un partito di stronzi, incapace di schierarsi per una lotta sacrosanta, e che se ci fosse stato ancora Togliatti…”. La Jotti elogiò appassionatamente Pannella, e lo sdoganamento ebbe inizio.



“Con Tempo illustrato, poi, feci mie tutte le istanze radicali e altre le ispirai”. Fu per questa fratellanza ritrovata che, nel 1979, Lino Jannuzzi andò a dirigere Radio radicale, sino ad allora strumento di semplice propaganda e raramente d’informazione. Lino ne fece quello che è oggi. Intanto si inventò la rassegna stampa, e di conseguenza si inventò Paolo Liguori e, poi, Marco Taradash, il quale andò avanti sette anni. “In parte mi sono pentito, perché da allora non riesco più a fare a meno della rassegna stampa e della radio in genere. Mia moglie dice che a furia di sentirla mi sto rintronando”. Poi si inventò i programmi non stop, le dirette dalla Camera, le cronache dei processi.



Quando le Brigate rosse sequestrarono il giudice Giovanni D’Urso. Lino organizzò una serie di trasmissioni trattativiste, al termine delle quali intervenne Sciascia che si rivolse alle Br invitandole a ripensare per bene a quello che stavano facendo, perché, a suo parere, andava contro il loro interesse di terroristi. A Pannella, per quanto contrario alla linea dura, gli prese un colpo; i comunisti si indignarono, Bettino Craxi insorse, i giornali scrissero paginate. “Però alla fine D’Urso venne liberato”.

La verità è che un anarchico come Jannuzzi con un accentratore come Pannella non poteva durare. Bisticciavano per le inezie e i massimi sistemi. Pannella voleva mettere il becco sui risvolti dell’ultima delle trasmissioni; Jannuzzi intanto tramava e a un congresso raccolse consensi a sufficienza per far saltare Francesco Rutelli, ormai a un passo dall’elezione a segretario. Lino si produsse in un lungo e impetuoso discorso, salutato dalla platea con ovazioni solitamente riservate ai campioni del football; Lino tornò al posto fra gli applausi e le grida, e finse di dimenticare la giacca sul palco per poter tornare indietro e raccogliere anche il bis. “Rutellino andò a piangere sulla spalla di Marco…”. Poi siccome a entrambi serviva un pretesto per consumare il distacco, lo trovarono nello scandalo della P2.

Pannella voleva cavalcarlo per condurre una delle sue eroiche battaglie anti-regime; Lino era contrario ad andare a ruota dei comunisti, eppoi alla storia del Grande Materassaio ci credeva meno di poco: “Glielo dicevo pure a Marco. Gli dicevo, ma secondo te a questo materassaio di Arezzo chi glielo faceva fare di rovesciare il sistema in cui s’ è ingrassato? Ma non ti rendi conto che e tutta una roba demagogica dei comunisti? Ma lui non mi ascoltava: queste stronzate pistarole, con massonerie, servizi deviati e ragion di Stato gli sono sempre piaciute…”. A Lino, invece, gli piace smantellarle. Un esempio: “Una volta Andrea Purgatori, scrivendo il seicentesimo articolo su Ustica, sostenne, basandosi non so su quali documenti riservatissimi, che il giorno della tragedia la portaerei americana Saratoga lasciò il porto di Napoli. Eppure gli americani non l’avevano mai comunicato. Ecco la prova, si lasciava intendere, del loro coinvolgimento. Ebbene, bisogna sapere che i napoletani, quando contraggono matrimonio, vanno sul lungomare di via Caracciolo a farsi fotografare con alle spalle Capri e il Vesuvio. Poi spediscono le istantanee al Mattino, che le pubblica. Siamo andati a vedere le foto degli sposalizi di quel giorno. Ci stanno una quantità di belle coppiette, con alle spalle Capri, il Vesuvio e, naturalmente, la Saratoga. Mamma mia…”.



Comunque, la questione della P2 servì a Pannella per liberarsi di Jannuzzi e a Jannuzzi per liberarsi di Pannella. Lino collaborò con Radio radicale ancora una volta, l’ultima, per il processo a Enzo Tortora, ma anche in quel caso Pannella pretendeva una posizione laicamente equidistante, mentre Lino non si voleva permettere il lusso del dubbio: era innocentista e lo era incondizionatamente. Ebbe ragione ma non ci guadagnò nulla, come nulla ci guadagno Tortora. Lino ha ereditato qualche condanna per diffamazione e persino per minacce ai danni dei magistrati: “Presto o tardi passeranno in giudicato, e mi toccherà di andare a Poggioreale. Poi i miei avvocati si industrieranno per farmi avere dei benefici di legge e sarò affidato a quelli dei servizi sociali. Questo ci ha lasciato la vicenda di Enzo Tortora”.

La questione della P2 servì a Pannella per liberarsi di Jannuzzi e a Jannuzzi per liberarsi di Pannella.



A casa di Lino Jannuzzi ci sono appese le sue foto con Leonardo Sciascia. “Lino, razionalizzami…”. Sciascia chiedeva sempre a Lino di razionalizzargli i fatti. Lino non chiedeva altro. Lino è uno capace di razionalizzare la morte di Enrico Mattei spiegando che l’aereo cadde perché finì la benzina. Fu una grande amicizia, quella con Sciascia. Lino ne conserva ricordi, lettere, articoli, la prefazione di Leonardo al suo libro su don Masino Buscetta. Conserva l’immagine di Sciascia morente, cinereo, ansante, infermo. Impegnato a raccogliere le poche energie rimastegli per motivare la sua pessima opinione dell’intelligenza di Leoluca Orlando.



Da qualche parte ci sono anche le foto di Lino con Adriano Celentano. Le feste a Roma, le cene, le interminabili sfide a poker. Poi a Celentano offrirono la conduzione di Fantastico. Lui chiese lumi a Lino e ne ebbe. Lino gli consigliò di tirare fuori tutta quella carica da tribuno di cui era dotato, gli consigliò di approfittarne per prendere la gente a se, arringarla, trascinarla, infiammarla. Celentano ne combinava una più grossa ogni sabato che passava. E Lino a incitarlo. Fino all’ultimo. Fino a che non gli disse: “Senti, se sei contro la caccia, se sei convinto della necessità di abolirla, usa questo tuo spazio, dillo, combina qualcosa di buono in questo paese di morti”. La sera dopo, davanti a dieci milioni di telespettatori, Celentano scrisse su di una lavagna: “La caccia e contro l’amore”. Lo scrisse proprio così, con la “e” senza accento. Rischio di invalidare il referendum perché fece propaganda fuori tempo massimo. Seguirono polemiche interminabili, e Lino si diverti come un pazzo. Lo ricorda cercando le sue foto con gli altri amici. Quella con Vittorio Sgarbi, per esempio. Condussero assieme un programma televisivo in occasione del Festival di Venezia, su un canale Rai. Dopo, con quel che combinarono, fra prese per il culo (di Lino) e insulti (di Sgarbi), non gliene affidarono più. Ora Lino e Sgarbi trascorrono le vacanze assieme anche se Sgarbi, quando vanno a visitar le chiese, ci ha sempre un sacco di domande e per aver risposta non esita a tirare giù i prevosti dal letto.



Lino Jannuzzi, settantuno anni compiuti, stava impostando il Velino – l’agenzia di stampa da poco fondata e di molto apprezzata – e un poderoso gin and tonic. Era mezzogiorno, l’ora dell’aperitivo. Lino trafficò con la macchina del ghiaccio e ne riempì sino alla metà il bicchierone da un litro. Poi l’acqua tonica e il gin. “Facciamo una pausa, con queste memorie, che mi sono rotto il cazzo. Ma tu sei sicuro di volere una roba analcolica?”. “Non ce la farei mai a bere a quest’ora”. “Io ce l’ho sempre fatta. Quelli come me o muoiono presto o si divertono assai”. “Che fai oggi pomeriggio?”.


“Oggi ci ho da fare coi gatti. Lo sai che sono l’unico gattaro uomo di Roma?”. “Davvero?”. “Davvero. Ho in gestione piazza del Pantheon e piazza della Minerva. Acquisto le scatolette, pago le spese del veterinario. I gatti mi vogliono bene, e io voglio bene a loro. I gatti sono bestie straordinarie”. Stava cercando quelle foto, Lino. Quelle di Sgarbi e degli altri.

Lino trafficò con la macchina del ghiaccio, la tonica e il gin. “Che fai nel pomeriggio?”. “Oggi ho da fare coi gatti”.



Trovò quella di Filippo: “Un gatto eccezionale. Alle classiche qualità del gatto univa quelle del cane. Era intelligentissimo. Ma ora è successa una disgrazia… Era molto malato… Ci ho un rimorso… Vabbè…”. Lino sorseggiò tacendo il gin and tonic. Stava per riprendere a raccontare, quando entrò una ragazza. “Bongiorno, senor Lino…”. Era la sua cameriera spagnola. La fanciulla si rabbuiò subito e scoppio a piangere. Lino le chiese che avesse, e lei indico la foto, asciugandosi gli occhi: “Felipe… Pobre Felipe… ” (6 – fine).

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