Tutti i fantasmi che si devono affrontare sul ring

Pugni della consistenza dei sogni ma che pesano come il piombo: questo sport non è solo battaglia fisica, ma anche e soprattutto psicologica. Da Sugar Ray Leonard ad Ali, fino a Imane Khelif. Rassegna di scontri passati alla storia

Una rosa è una rosa è una rosa e un pugno è un pugno ma non è solo un pugno. Nella testa di un atleta, l’avversario reale s’incontra con i fantasmi personali e i guantoni visibili s’incrociano con gli invisibili. Nella boxe e nelle discipline da combattimento si giudica dove s’abbatte un colpo, se ne valuta l’impatto di ossa e carne ma qualcosa sempre sfugge nella matematica degli effetti. Chi ha guardato e riguardato la pugile Angela Carini desistere, dopo una manciata di secondi, nel match olimpico contro Imane Khelif ha reputato la durezza dei due colpi subiti insufficiente a giustificare l’abbandono, da qualcuno spiegato con l’eccesso di pressioni psicologiche o con l’uso strumentale delle polemiche sulla definizione sessuale dell’algerina. La zuffa di parole è stata la specialità supplementare dei Giochi di Parigi, ma per restare sul ring, Angela forse non si è arresa ai colpi presi quanto a quelli paventati, fantasmi profetizzati che hanno la consistenza dei sogni ma la pesantezza del guanto di piombo.

Il “no más” più famoso della storia pugilistica fu pronunciato da un celebre picchiatore come Roberto Durán, quarantaquattro anni fa, per gettare la spugna contro il raffinato Sugar Ray Leonard nel match per il titolo mondiale dei pesi welter. All’ottavo round il pugile panamense, malgrado il soprannome di “manos de piedra”, non ne poteva più della strategia provocatrice dello sfidante e disse quel “basta così” di cui un giorno si sarebbe pentito, perché ogni volta che si pensa a Durán si ripensa a quelle due parole più che alla sua lusinghiera carriera. Poteva continuare il match, ma con la testa non ce la fece più. Persino i giocatori di wargame sono unanimi nell’attribuzione di un punteggio indiscutibile al morale delle truppe, e chi assiste a un combattimento – coi pugni o all’arma bianca, di boxe o mixed martial arts – dovrebbe ricordare che nei duelli individuali quel fattore mentale conta persino di più.

Il “no más” più famoso della storia pugilistica fu pronunciato da Roberto Durán, 44 anni fa, malgrado il soprannome di “manos de piedra”


Il piccolo “no más” di Angela Carini racconta che seppure il mistico Gurdjieff avesse avuto ragione a definire gli uomini ordinari come macchine, sicuramente si sbagliava per i fighter. La paura di un pugno può far più male di un pugno preso, il ghigno di un avversario o le sue “pagliacciate”, come le lamentò Durán per Sugar Ray Leonard, possono condizionare più delle botte. Sul cielo basso di un ring aleggiano i fantasmi. Ganci impalpabili fanno più danni di tecniche vistose, avversari sfuggenti prostrano più dei truculenti. Assurse perciò ai vertici della boxe Nicolino Locche, sardo d’origine ma argentino della provincia di Mendoza, una leggenda nazionale del pugilato al pari o più di Carlos Monzón, con una statua eretta nel 2017 per ricordare quest’uomo di fumo. Soprannome: El Intocable. Vinceva così, per prodigiosi riflessi che gli permettevano di sfiancare i rivali schivando tutti i colpi finché per frustrazione fisica e morale, quando centinaia dei loro pugni erano andati a vuoto, si arrendevano a El Intocable. Per stanchezza, perché non si può combattere un fantasma, non uno che, tra un round e l’altro, si faceva passare la sigaretta dai secondi perché quell’uomo di fumo poteva rinunciare a qualche allenamento, ma non al tabacco, come il più grande dei tenori, Enrico Caruso, che tra una scena e l’altra passava da un assistente dietro le quinte con la sigaretta accesa. Certuni vanno contro il buon senso o la natura – per la voce di un tenore, per i polmoni di un pugile – eppure assurgono alla gloria. Né i cantanti lirici né i pugili sono macchine prevedibili e forse nessun uomo lo è, caro Gurdjieff.

Il ghigno di un avversario o le sue “pagliacciate” possono condizionare più delle botte. El Intocable, Nicolino Locche, vinceva schivando tutti i colpi


Perché ti fermi? Perché non ti rialzi? “Get up and fight, sucker!”: strillava così, come un pazzo, Cassius Clay divenuto Muhammad Ali a Sonny Liston finito al tappeto, sconsigliando l’arbitro Jersey Joe Walcott dall’allontanarsi per paura che lo prendesse a calci in testa, una scena catturata dall’obiettivo del giovane Neil Leifer e diventata tra le foto più famose del Novecento. È il 25 maggio 1965 e il ring è montato in un’anonima cittadina del Maine, Lewiston, dove The Big Ugly Bear Liston si gioca la rivincita per il titolo mondiale dei pesi massimi. C’è una pessima atmosfera intorno al match: Malcolm X è stato assassinato in febbraio dopo avere abbandonato la Nation of Islam, Ali è invece rimasto fedele all’organizzazione, si vocifera che i transfughi vogliano sparargli quando sale sul ring, altri ipotizzano che la mafia abbia truccato l’incontro, l’arena e i dintorni pullulano di agenti dell’Fbi, agli ingressi perquisiscono persino la pochette delle signore. Liston va giù dopo un minuto e 44 secondi, per un pugno d’incontro che nessuno o pochi a bordo ring hanno visto, sicché ne dubita lo stesso Ali finché non rivedrà le immagini al rallentatore. Il pubblico incredulo grida: “Fix!”, “è un incontro combinato”, e Liston prova a continuare ma ormai, notano i testimoni, era “nel mondo dei sogni”. Nasce la leggenda del phantom punch. Il pugno fantasma. Un gesto da quattro centesimi di secondo. Un gancio destro dall’alto contenuto in un guantone battuto all’asta nel 2015 a più di un milione di dollari.

Il “phantom punch” di Muhammad Ali a Sonny Liston, un gesto da 4 centesimi di secondo. Il guantone battuto all’asta a più di un milione



La zuffa di parole che a quell’incontro seguì tra i commentatori e gli esperti di boxe rimane memorabile e la racconterà David Remnick nella biografia di Ali, Il re del mondo, nel 1998. Lui, l’incredulo autore del pugno, ne diventerà finalmente padrone. Nel docufilm Quando eravamo re si sarebbe vantato: “Da quando il pugno è partito sono passati quattro centesimi di secondo… un battito di ciglia, il flash di una macchina fotografica. Dividi un secondo in cento parti: quattro centesimi sono come un contatore che va velocissimo… è un attimo, passano in un attimo. Guardate il filmato con gli occhi spalancati e molto vicini alla tv. Quando sto per colpirlo, tenete gli occhi aperti e concentratevi, altrimenti non lo vedrete”.

Ascoltammo, nel cinquantenario del phantom punch, il parere del famoso maestro di boxe Domenico Brillantino, allenatore di molti campioni, che ricordava il caso di due pugili italiani: Valerio Nati, campione europeo dei peso gallo e piuma specializzato nel montante sinistro al fegato, devastante quanto poco vistoso, e Giovanni Parisi, che con un “pugno invisibile” conquistò la medaglia d’oro dei piuma all’Olimpiade di Seul dell’88, mandando ko al primo round il pugile romeno Daniel Dumitrescu, favorito dai pronostici.

“L’essenziale è invisibile agli occhi”, dice la volpe al Piccolo Principe. Quantomeno negli sport da combattimento, a differenza di altre discipline, un gesto risolutivo può tendere a nascondersi, può eludere la misurazione, può produrre inganno. L’asticella del salto in alto, il lancio di un giavellotto o di un martello rispondono senza equivoci al sistema metrico decimale, e se è arduo capire quale centometrista abbia vinto, c’è il soccorso della tecnologia. Nessuna macchina però può giudicare l’effetto di un pugno, che in una circostanza è definitivo e in un’altra sarebbe irrilevante. Scrisse Arthur Daley sul New York Times dopo l’incontro Ali-Liston: “La cinetica è una branca della fisica che si occupa degli effetti delle forze. Non c’è assolutamente alcun metodo, tuttavia, di applicare la cinetica alla boxe in modo da poter misurare la forza di un pugno”. Soprattutto sulla mente.

Nelle arti del combattimento la porta resta aperta ai fantasmi e accade che la maestria, come per certi toreri o per certi scrittori, sia riconosciuta a chi padroneggia l’ellissi e l’allusione, che prevalga il non fatto o il non detto, e ne sanno qualcosa anche quei musicisti che con l’inatteso abbassamento di un semitono, o una riuscita dissonanza, trasformano in capolavoro la prevedibilità di una qualunque melodia. Le scuole di combattimento tradizionali cinesi, che studiarono più a lungo di altre l’arte dello spiazzamento, annoverano nel proprio patrimonio tecnico la boxe che confonde le tracce (Mizong quan) e l’imitazione dei movimenti dell’ubriaco (Zui quan), di apparente incongruità. L’avversario non deve vedere o si deve smarrire nella follia dei fantasmi che gli vengono apparecchiati ad arte. Vissuto tra l’Otto e il Novecento, Wong Fei-hung fu il più grande maestro delle scuole cantonesi di Kung Fu, diventato un eroe popolare celebrato in più di centoventi film (altro che James Bond). Ha lasciato in eredità, fra i suoi colpi preferiti, il cosiddetto “calcio invisibile” o “senza ombra”. Come ogni tecnica segreta è semplicissima. La differenza tra successo e fallimento sta soltanto nella perizia e nella velocità di chi la esegue.

Le scuole di combattimento tradizionali cinesi annoverano nel proprio patrimonio tecnico l’imitazione dei movimenti dell’ubriaco



Nella scherma occidentale in fondo accade lo stesso: la letteratura è piena di libri che parlano di stoccate segrete e di allievi disposti, nei secoli dei duelli, a sborsare una fortuna per apprenderle. Paul Féval nell’opera di cappa e spada Il gobbo immaginò “la botta del duca di Nevers”; Salgari parlava delle tecniche micidiali del Corsaro Nero; lo spadaccino siciliano Turillo di San Malato ne inventò una dal nome eloquente di “castigo di Dio”. Però Arturo Pérez-Reverte in uno dei suoi primi romanzi, Il maestro di scherma, fa dire a don Jaime Astarloa che “la stoccata perfetta non esiste. O, per essere precisi, ne esistono molte. Ogni colpo che consegue il proprio obiettivo è perfetto, ma nulla di più”. E se due schermidori perfetti s’affrontassero, potrebbero proseguire il duello per sempre, ma chi vi mette fine è “il Destino” perché “fa in modo che uno dei due avversari, prima o poi, commetta uno sbaglio”. Raddolcita dalle regole e dal bottone che copre la punta della lama, senza effusione di sangue, la scherma sportiva resta fra le discipline che più eludono lo sguardo e conserva un margine di aleatorietà che nemmeno l’elettrificazione e il Var possono compensare (lo testimoniano le polemiche per la finale olimpica di fioretto maschile, che Filippo Macchi ha perduto per l’astensione arbitrale). Perché “la scherma è l’arte dell’inganno”, spiega l’ex campione di spada Lorenzo Radice, presidente dell’Accademia Scherma Milano: “Bisogna spingere l’avversario a credere che io stia facendo un’azione mentre ne faccio un’altra e bisogna possedere un bagaglio tecnico il più ampio possibile, perché chi è ripetitivo non avrà mai la cosiddetta ‘mossa segreta’. La scherma è come una partita a scacchi giocata con il corpo”. Prima lo “scandaglio”, che provoca l’avversario per conoscerlo, quindi il “traccheggio”, l’azione maturata in base a questo studio. Come per i pugni fantasma o per il calcio senz’ombra, quel che conta è l’abilità esecutiva. “Le reazioni di chi combatte a una distanza di due metri devono essere molto veloci”, aggiunge Radice, “e anche l’adattamento all’avversario: alto, basso, mancino, più aggressivo, più difensivo”.

C’è forse in ogni incontro di scherma, in ogni match di boxe, un atomo di tutte le altre sfide del passato e del futuro, e forse dietro ogni rinuncia c’è l’incubo di una previsione o di un ricordo che è di qualcun altro e in quel momento arriva in prestito a chi sta sulla pedana, sul ring o nella gabbia ottagonale. Lo spirito di Tom Molyneaux è il titolo di un racconto di Robert E. Howard: l’ombra di un campione s’incorpora nel pugile più raffinato Ace Jessel e gli permette di sconfiggere Mankiller Gómez, un combattente bestiale come Liston su cui s’abbatte un destro non sferrato “dal solo, forte braccio di Ace, ma anche da una traslucida mano nera che gli stringeva il polso”. C’è poi il fantasma che vide solo un promettente pugile sudafricano di ventiquattr’anni di nome Simiso Buthelezi, quando alla decima ripresa di un incontro nella categoria leggeri trascurò il rivale e cominciò a boxare contro un’ombra inafferrabile scaturita da una lesione cerebrale di cui nessuno s’era accorto e per cui qualche giorno dopo sarebbe morto. Questa però non è letteratura, ma cronaca tristissima reperibile ancora su YouTube. C’è più mistero in un pugno che in una rosa e forse più fantasmi su un ring che in qualunque stregato castello scozzese.

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