Jacopo Mazzonelli e l’indagine sul suono “capace di toccare pur rimanendo invisibile”

“Lo studio d’artista? È il luogo dove tutto accade. Nello studio il giudice e l’imputato sono sostanzialmente la stessa persona”

Nome: Jacopo Mazzonelli

Luogo e data di nascita: Trento, 1983

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Galleria Studio G7, Bologna

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L’intervista

L’intervista è realizzata in collaborazione con Anna Setola


Com’è organizzata la tua giornata?

Ogni giorno lavoro nel mio studio e tendenzialmente cerco di frazionare il tempo dedicato alle opere, gestendo l’avanzamento di due o tre lavori contemporaneamente. Quando non sono sulle opere, cerco di ordinare i materiali. Inoltre progetto molto al computer possibili assemblaggi, componendo rendering e fotomontaggi e archiviando possibili riferimenti tra testi e immagini. Studio pianoforte sistemando di volta in volta qualche passaggio tecnico o leggendo nuove partiture.



L’indagine sulla dimensione sonora è centrale nella tua pratica artistica. Da dove nasce questo interesse?

Credo che il suono abbia la capacità di “toccare” pur rimanendo invisibile. Si comporta come la luce, invadendo prepotentemente ogni spazio che incontra. Il suono organizzato poi, frutto della disposizione sistematica delle frequenze nel corso dei secoli fino al sistema temperato, racchiude una potenza evocativa difficilmente paragonabile a qualunque altra forma visibile. Ci si interroga spesso se il suono significhi di per sé. Nel momento in cui però accade, se accade, diviene una parte centrale dell’esistenza.



Che cos’è per te lo studio d’artista?

Lo studio, nel mio caso, è il luogo dove tutto accade. Questo perché progetto e realizzo personalmente, fisicamente le opere. Una cosa interessante è che lo studio, essendo deputato alla creazione di opere d’arte, obbedisce a una serie di regole ferree che rimangono però totalmente autodeterminate. Nello studio il giudice e l’imputato sono sostanzialmente la stessa persona.

In che modo trasformi il concetto di tempo in oggetto?

Innanzi tutto lavorando spesso con oggetti sui quali il deposito del tempo ha già compiuto la sua azione. Poi, in una forma più concettuale. Mi ha sempre colpito la frase: “Anche un orologio rotto segna l’ora esatta due volte al giorno”. Al di là del suo significato comune, a guardare bene, sembra interpretare quel momento preciso nel quale un oggetto, cristallizzato nelle mani dell’artista, acquisisce un suo tempo personale che scorre indipendente dal tempo universale.



Poi, in altri casi, il tempo smette di essere un vettore orizzontale per diventare piuttosto una misura. Prendiamo ad esempio un materiale. Nel tempo esso può rimanere immutato oppure può – ritirandosi, scolorendosi, sfogliandosi – trasformarsi e divenire altro. D’altra parte quadranti di orologi vuoti, lancette incastonate in pile di magneti che le tengono ferme o strumenti che non suonano, alludono direttamente al gesto di generazione del suono, un istante prima che esso si compia.



Quali sono i tuoi riferimenti visivi e teorici?

Attingo molto dalla poesia per la sua capacità di descrivere oggetti impossibili con poche parole incisive, ma anche dal cinema e dal testo musicale. Sicuramente i dispositivi di riproduzione musicale, gli strumenti, le loro custodie e tutto ciò che ruota attorno al tempo musicale è centrale per il mio lavoro. Ho diversi riferimenti compositivi, soprattutto nel linguaggio musicale contemporaneo, per quanto concerne la questione della forma. Per quanto riguarda l’arte visiva, frequento spesso il lavoro di Robert Gober, Rebecca Horn, Alicja Kwade, Claudio Parmiggiani, per citarne solo alcuni. Il testo che ha segnato di più il mio lavoro rimane “Il paesaggio musicale” di Raymond Murray Schafer, un testo che continuo a consultare per la preziosità e particolarità del suo approccio all’evento sonoro in relazione alla società.



A che cosa stai lavorando?

Sto lavorando a una scultura per la Cappella dei Notai, presso la Galleria di Arte Moderna Achille Forti di Verona, che verrà presentata a ottobre di quest’anno. Si tratta di un lavoro complesso, che porta il titolo “Soundborders”, e mette in relazione il suono della parola soundboard (tavola armonica) e borders (confini). Esso si compone di una tavola armonica estratta da un antico pianoforte verticale, dalla quale si ergono due lunghe lampadine a filamento di Edison. Tramite un sistema che trasforma il codice morse in segnali luminosi, le lampadine sembrano parlarsi. La scultura appare come una riduzione in scala di un ipotetico paesaggio naturale e si comporta in effetti come esso. Se una tavola armonica trasmette e amplifica le vibrazioni prodotte, il suolo riproduce i moti più profondi della crosta terrestre. Nell’opera coesistono concetti come tensione, vibrazione, presenza, assenza, rumore e gesto.

La tua arte si avvale di tecniche e metodologie che attingi da svariate discipline. A quale di queste sei particolarmente legato?

Sicuramente il pianismo, che in effetti, per citare letteralmente la tua domanda, è un’arte che abbisogna di molta disciplina. La creazione del suono è un processo che non parte solo dalle dita, ma è prima di tutto un’intenzione. La capacità di trasformare tale intenzione in un complesso processo fisico, intellettuale ed emotivo che solo alla fine diventa un suono è affascinante. Ma perché diventi un suono c’è bisogno di un altrettanto complesso processo che faccia in modo che un tasto produca una frequenza perfetta, e quindi uno strumento musicale, che altri non è che una meta-rappresentazione del corpo umano, in tutte le sue minime parti.

In che modo hai iniziato a fare l’artista?

L’interesse per la musica nasce da piccolo. Ho cominciato a studiare violino, per poi passare al pianoforte e diplomarmi in Conservatorio. Solo a un certo punto, frequentando assiduamente il repertorio contemporaneo e addentrandomi nella creazione di musiche per il cinema muto delle avanguardie, ho avvertito la necessità di cominciare a produrre fisicamente degli oggetti. Non ho mai smesso però di suonare e di studiare. Con il tempo ho imparato a produrre autonomamente le mie opere, interessandomi approfonditamente ai materiali, al loro rapporto col suono o alla costruzione e restauro degli strumenti.



Sempre da piccolo però collezionavo anche oggetti, spinto da un’attrazione inspiegabile per il loro accumulo seriale. Li disponevo in una certa precisa maniera, poi li fotografavo, e alla fine li archiviavo. Questo rapporto privilegiato con le cose, precise nella costruzione ma usurate dal tempo, mi ha sempre accompagnato.



Un caso è sicuramente quello dei tubi catodici. Dopo averne accumulati parecchi, li ho impiegati dapprima per riprendere e ritrasmettere in diretta l’interno dei pianoforti sui quali suonavo durante le performances, successivamente per mostrare le prime opere di videoarte, e solo alla fine – dopo averli sezionati a metà – per poterli ricomporre in una forma scultorea, immobile.



Recentemente, nel ciclo di opere “This is a true story”, ne ho impiegato solo un dettaglio, sostituendo la parte di vetro con un velluto lavorato al laser. Questo per dire che probabilmente non esiste un inizio preciso, se non per quanto riguarda il curriculum espositivo. La zona di intervento si è ampliata e poi stabilizzata.



Qual è la funzione dell’arte oggi?

Non posso risponderti se non per quello che può essere l’arte per me in questo momento. Lego molto l’arte al sogno. Se nel sogno le coordinate del tempo si perdono, ed è possibile che la fisica degli elementi venga ribaltata, ecco nelle opere io cerco qualcosa che non possa esistere realmente, ma sia come una poesia nella quale le lettere si materializzano.




In un passaggio Alda Merini scrive: “Io sono una sedia vuota su cui non si siede mai nessuno”. La poetessa non dice “Io sono come una sedia”, ma “Io sono una sedia”. L’arte credo sia il modo di mostrare per un attimo alle persone quella sedia.

Le opere

La nuova fisionomia dei pianoforti di ABCDEFG si delinea come il punto di partenza per una riflessione sulla natura stessa del rapporto tra strumento musicale ed esecutore, ma anche tra dispositivo sonoro e scultura silenziosa.

ABCDEFG, 2015-16, pianoforti verticali riassemblati, dim. amb. (Collezione privata, Verona)


Con Antipiano, che presenta una distesa di soli tasti bianchi, siamo invitati ad un’esplorazione tattile e concettuale dell’opera, che rovescia i consueti rapporti di forza tra oggetto e soggetto, inaugurando un contatto con una geometria che ancora non conosciamo.

Antipiano, 2023, tasti di pianoforte assemblati, ottone, 10,2x16x14,4 cm (Collezione privata, Bologna)



Diapason cita l’archetipo della regola musicale tra echi antropomorfi e oggetti-alfabeto riconoscibili ma al tempo stesso ambigui.

Diapason, 2023, pietra acrilica, 180×24,5×2,4 cm (Courtesy l’artista e Galleria Studio G7, Bologna)

Il tempo è l’oggetto di Finis, in cui è la parola stessa stampata al termine di ogni rullo a scandire il tempo su di una scala immaginaria ma riprodotta in misure reali.

Finis, 2023, parti di rulli sonori per autopiano montati a parete, dim. var. (Courtesy l’artista e Galleria Studio G7, Bologna)

Le opere della serie Volume capovolgono l’idea della musica come performance corporea dell’esecutore, suggerendo invece come il suono possa essere gravità, materia, volume da riempire con un pneuma vitale.

Volume, 2018, trombone, cemento, ferro, 160x25x120 cm (Collezione privata, Pistoia)

Imagine only one dreamer. A brotherhood of greed. Above us only possessions. Sharing all the hell.

Imagine, 2024, barre di ottone sagomate, dim. var. (Courtesy l’artista e Galleria Studio G7, Bologna)

In Noise, il suono immaginato della scrittura acquisisce il medesimo status delle parole ed evoca le poliritmie prodotte dalla pressione metallica dei tasti in anni di lavoro.

Noise, 2024, macchina da scrivere, inox lucidato a specchio, 31,5x30x14,7 cm (Courtesy l’artista e Galleria Studio G7, Bologna)

Solo è un’opera incentrata sul rapporto tra strumento musicale e corpo dell’esecutore. Qui la leggerezza dell’abete si trasforma in ferro grave, pesante.

Solo, 2015, putrella di ferro, taglio laser, 110x45x19 cm (Collezione privata, Milano)

Una profonda cornice ospita una stratificazione di pagine di album fotografici vittoriani, pensati per conservare le nostre memorie personali. Il titolo, Stereofonia, allude ai condotti auricolari delle orecchie, artefici della percezione dei caratteri spaziali dei suoni, della loro direzione e provenienza, e dunque della memoria sonora che ne porteremo addosso.

Stereofonia, 2024, pagine di album vittoriani assemblate, ottone, vetro, 14,8×21,7×8 cm (Collezione privata, Milano)

This is a true story è un’opera realizzata con velluto da sipario scavato da un laser a bassa emissione incorniciato in un telaio per monitor a tubo catodico. Differentemente dalla più consueta formula “Based on a true story”, This a true story ipotizza la corrispondenza (im)possibile tra finzione e realtà e le lettere che compongono l’enunciato sono realizzate specularmente, come a indicare un punto di vista interno.

This is a true story, 2023 incisione laser su velluti da sipario, cornici di monitor crt, 22x44x2,5 cm (Courtesy l’artista e Galleria Studio G7, Bologna)

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