Ritorno a Iquitos. L’Amazzonia, un mondo nascosto tra inferno e paradiso

Riaprire un vecchio albergo e scoprire il turismo di chi va a curarsi l’anima con l’ayahuasca, il potente allucinogeno. Una storia di delfini rosa, opere dell’ingegner Eiffel e saggi nonni. E radici ritrovate

Il mio piccolo albergo a Iquitos era una scommessa personale e un’avventura, non sapevo se ce l’avrei fatta in quella giungla o se sarei dovuta scappare di nuovo tra le braccia dell’ordinata Europa. Non sapevo che la maggior parte della mia clientela sarebbe stata di stranieri che venivano a cercare l’ayahuasca, invece che di biologi alla ricerca di nuove specie, o di turisti muniti di binocolo e retina a caccia di farfalle dai colori impossibili, che mi ero aspettata.

Iquitos aveva avuto il suo spettacoloso boom alla fine dell’800, l’epoca del caucciù. Ebbe un teatro, un hotel di lusso, una loggia massonica



Iquitos è il capoluogo della regione di Loreto, la più grande del Perù. Le sue radici affondavano in una comunità indigena, quella degli Iquito, di cui si sa poco, se non che vennero convertiti e introdotti al mondo “civilizzato” dai missionari gesuiti nel Settecento. Un secolo dopo era cresciuta come porto di scambio, in un territorio di frontiera, ma restava piuttosto una terra di nessuno, lontana com’era da qualsiasi capitale delle nascenti repubbliche latinoamericane. Aveva poi avuto il suo spettacoloso boom alla fine dell’Ottocento, l’epoca del caucciù. Ebbe un teatro, non dell’opera come la cugina brasiliana, Manaus, ma pur sempre un teatro, un hotel di gran lusso, una loggia massonica, e si diceva che i ricchi mandassero a Parigi il proprio bucato. Da Parigi arrivò anche una casa di ferro di creazione dell’ingegner Eiffel, acquistata da un barone del caucciù, che però doveva essere spedita in pezzi per essere assemblata, tipo Ikea, a Quito, Ecuador, e invece arrivò al porto di Iquitos. La Casa di Ferro è ancora qui, nella piazza centrale della città, per colpa di una I in più. Alla fortuna dei baroni della gomma corrispose il periodo più buio delle comunità indigene, Bora, Uitoto, Andoque e Ocaina, ridotte in schiavitù e costrette a isolarsi per sopravvivere a quello che poi fu chiamato genocidio. Qualche colono ostinato provò a piantare alberi di Hevea brasiliensis là dove li tagliavano, ma come per una beffa dell’Amazzonia stessa, questa specie, coltivata, diventa preda di un fungo che ne impedisce la crescita. La produzione si fermò, per rinascere in Asia, per mano di un imprenditore britannico.

Casa de fierro



Negli anni 70 Iquitos conobbe il suo secondo boom, dopo quello del caucciù, quello del petrolio. E la sua subdola appendice, la cocaina negli 80.



Io sono nata nel 1980 in una clinica privata di Iquitos, al tempo l’unica. Walter, mio padre, uno svizzero di Sankt Gallen, era venuto in Perù per produrre il film culto di Werner Herzog, “Fitzcarraldo”. Mia madre, Gloria, era nata in una canoa. Giovane amazzonica ribelle, dalla sua cittadina sulle rive dell’Ucayali, a due giorni di battello da Iquitos, era venuta a studiare scienze forestali nella “grande città”.



Mio padre fu folgorato da lei e dalla giungla.

All’uscita dalla clinica, il mio secondo giorno di vita, sono stata portata in una casa costruita da un trafficante greco-americano alla fine degli anni 60, che era stata acquistata da mio padre per ospitare la produzione del film. Ci arrivammo per una strada di argilla rossa chiamata Avenida la Marina, c’è la marina militare, un ospedale navale e un’accademia navale. Al tempo della sua costruzione c’era solo un sentiero in mezzo alle foreste che portava al fiume Nanay. Il trafficante si era fatto costruire una casa di mattoni e cemento in mezzo alla giungla, grandi finestre di vetro, pavimenti di mogano e una piscina con fontana al centro. In questa casa sono rimasta solo fino alla fine delle riprese di “Fitzcarraldo” nel 1981, poi sono stata trapiantata in Italia. Da anni vivo a New York, la città di tutti e di nessuno.

Sono nata nel 1980 a Iquitos, Perù. Mio padre, svizzero, era venuto per produrre il film culto “Fitzcarraldo”. Mia madre era nata in una canoa

Molti si figurano l’Amazzonia come un paradiso terrestre di frutti esotici, piante lussureggianti e sconosciute, cascate, fiumi, uccelli colorati, scimmie e gattopardi. Altri come un posto scuro, ostile, di serpenti, insetti, genti primitive e quanto ancora la loro mente possa temere. Gli uni e gli altri non sbagliano, ma non ne rimane molta di questa Amazzonia selvaggia, quel che c’è in abbondanza è un paesaggio desolato da un’accanita storia di estrazione e sfruttamento, e di indifferenza – anche l’indifferenza sa accanirsi. In questi ultimi anni è tornata alla carica la vecchia ossessione dell’oro. Miniere illegali proliferano rilasciando nei fiumi grandi quantità di mercurio, utilizzato per separare l’oro dalle impurità.

Sono tornata nella mia città natale varie volte in età adulta a trovare la mia famiglia materna e mio padre. Sono cresciuta fuori dall’Amazzonia, in Italia, circondata dalle colline umbre, dolci ma selvatiche in paragone ai paesaggi così umanizzati della Toscana, o della Svizzera. Non mi sono formata in Amazzonia ma la porto, per così dire, nel sangue.

In Amazzonia ho scoperto di essere gringa, largamente la straniera. Non sapevo aprire i platani, le “banane da cottura”.

La prima volta che ho deciso di tornare alle mie radici amazzoniche era il 2007. Avevo 27 anni. Mio padre mi aveva lasciato mano libera sulla gestione del piccolo hotel, che aveva chiamato La Casita Fitzcarraldo in onore del film che aveva prodotto. Ormai donna sono tornata in una terra di cui non sapevo molto, se non dalle storie di mia madre e di suo padre. L’hotel l’ho ristrutturato e gli ho cambiato il nome di Casita in “La Casa Fitzcarraldo”, visto che è grande e circondata da un giardino tropicale unico a Iquitos.


Mi sono dovuta abituare a shock culturali al contrario. Ero sempre stata straniera in Italia e diversa in Svizzera, e qui in Amazzonia ho scoperto di essere gringa. Gringo in America Latina non è lo statunitense come in Vietnam, ma è più largamente lo straniero, bianco ma non necessariamente. Io stessa non sono bianca, un po’ più chiara della gente di qua, ma proprio bianca, no. E io, la gringa, non sapevo aprire i platani, le “banane da cottura” – cibo comunissimo – il che mi ha causato anni di derisione amorevole da parte delle donne del luogo che venivano a lavorare con me.



Insomma: ero un pesce fuor d’acqua.



Mi sono dunque ritrovata nel bel mezzo del nuovo boom, il boom dell’ayahuasca. Iquitos, porto di mare lontano dal mare nella giungla amazzonica, “l’ultima fermata prima della fine del mondo”, anche questa volta occupava un suo posto strategico. L’Avenida La Marina, la strada della mia prima casa, è oggi una delle più trafficate della città, con un casino di motocarros, motorini smarmittati, Suv, 4×4, camion che trasportano vacche magrissime o maiali spaventati, mattoni, gas o petrolio, e soprattutto immensi tronchi di alberi tolti a quello che rimane della giungla. La casa è nascosta dietro triplici mura di cinta per riparare dal rumore. Mio padre la chiama la sua oasi nell’inferno in cui si è trasformata Iquitos, che quarant’anni fa gli era parsa un paradiso.



Nella città caotica, circondata dalla giungla, due mondi si stavano scontrando. Quello locale, già abbastanza confuso, della vita quotidiana del ribereño subtropicale che scopre il consumismo, e quello di un flusso di occidentali di ogni ceto sociale e livello educativo che venivano a provare gli effetti di questa bevanda amazzonica. Tutti alla ricerca di qualcosa. Ma che cosa?



Di ayahuasca avevo sentito parlare da bambina dal mio nonno materno León. Era uomo di altri tempi. A nove anni era stato comprato da un avventuriero tedesco che al tramonto del caucciù sperava ancora di fare fortuna con il lattice. Non ci riuscì. Tuttavia negli anni trascorsi viaggiando con quel testardo di cui è restato solo il cognome, Hoffmann, León imparò il tedesco, il Matse, il Kukama e molte altre lingue native, ma mai a leggere o a scrivere. I nativi lo iniziarono alla conoscenza delle piante medicinali e dei loro usi, e gli insegnarono come cacciare, quando cacciare e cosa cacciare. Crebbe ascoltando le loro storie, le mitologie, i silenzi, le paure, le attese, e sempre da loro imparò l’uso dell’ayahuasca. León aveva dato l’ayahuasca a tutti i suoi figli quando avevano raggiunto l’età dell’adolescenza. Per marcare il passaggio da bambino ad adulto. Con me non lo aveva potuto fare.

Mio nonno León aveva dato l’ayahuasca a tutti i suoi figli in adolescenza, per marcare il passaggio da bambino ad adulto



In quegli anni passati a Iquitos ho iniziato a vedere con i miei occhi di che cosa trattasse questo scontro di culture di cui sono figlia, e le sue conseguenze nelle dinamiche tra locali e stranieri. Per le persone della mia famiglia, mestizos i più, l’ayahuasca era una bevanda che pulisce lo stomaco dalle impurità o che può anche essere usata per vedere il futuro. Non si beve da soli, si va da un brujo – alla lettera, uno stregone – o più esattamente un curandero, uno che usa le tecniche indigene ma per sopravvivere alla civilizzazione dei missionari si è adeguato alle simbologie cristiane. Questa pratica non è sempre vista di buon occhio nella società urbana dell’Amazzonia, anzi spesso con diffidenza. E con ambivalenza. Come se essere parte della giungla sia una vergogna della quale però segretamente, dentro le vene, ci si sente orgogliosi. Tale è la condizione del mestizo. Il mestizo ha paura della giungla ma ha imparato a guardarla come una risorsa della quale far tesoro. Arricchirsi, magari alla svelta, di denaro e benessere. Niente di male a voler essere benestanti. Il problema è che lo si fa a discapito della giungla stessa.

“Perché i gringos vogliono bere così tanta ayahuasca? Hanno forse tutti male allo stomaco?”, mi chiedevano. In un certo senso sì, il male c’era



In tanti qui mi hanno chiesto: “Perché i gringos vogliono bere così tanta ayahuasca? Hanno forse tutti male allo stomaco?”. In un certo senso sì, mi è venuto di rispondergli. Via via, parlando con i miei clienti, sono arrivata a capire che il male c’era, ma non proprio allo stomaco. Chi aveva un cancro terminale, chi aveva un disordine bipolare, chi non trovava il senso della propria vita, chi non sentiva più niente e voleva sentire qualcosa. Insomma, che il male comune del turista di ayahuasca era un male dell’anima. Certo si potrebbe discutere molto su cosa sia un male all’anima, e cosa sia l’anima, ma preferisco parlare di quello che ho visto nella mia ricerca curiosa di questo incontro di mondi attraverso l’ayahuasca. Perché anche io stavo ricercando qualcosa in Amazzonia. Stavo frugando nelle mie radici. Quelle che sentivo muoversi dentro di me al contatto con l’umidità così potente, prepotente ma, per me, coccolante della giungla, ogni volta che atterravo all’aeroporto di Iquitos.



Che è la città più grande al mondo raggiungibile soltanto per aria o per fiume. Da Lima si può prendere un aereo che in un’ora e mezza arriva all’aeroporto più orientale del paese. Oppure si può andare in autobus fino a Pucallpa, a 537 chilometri in linea d’aria da Iquitos, e in un battello stipato di merci, animali, amache e genti si arriva al porto di Iquitos dopo due notti di viaggio. Il volo è splendido quando non ci sono turbolenze tropicali. Si lascia il deserto che circonda Lima, si attraversano le Ande che dall’alto sembrano montagne di cioccolato, spoglie di alberi e maestose, per poi sorvolare il tappeto verde della foresta tropicale, ornata di fiumi tortuosi che al tramonto diventano serpenti dorati e brillano in tutta la loro gloria. Nell’ultimo decennio il tappeto verde pieno di misteri che si guarda dai cieli va rimpicciolendosi a vista d’occhio. Le foreste tagliate lasciano il posto a una rete di stradine a spina di pesce, per la processione crescente di convertiti che lasciano la vita nella giungla per venire a fare qualche soldo in città.

Le storie della buonanotte dei nonni amazzonici: animali che si trasformano in persone, specialmente i delfini rosa – non proprio carini, ma pur sempre rosa



Quando, da bambina, tornavo a Iquitos a trovare i nonni materni mi piaceva tanto stare con mio nonno. León era molto alto, forse sembrava alto a me che ero una bambina. Lui mi metteva a letto raccontandomi storie della sua vita e della mitologia amazzonica. Storie di animali che si trasformano in persone, specialmente i delfini rosa – non proprio carini, ma pur sempre rosa. Mi raccontò di una sua sorella maggiore che era scomparsa nella foresta. Una notte tornò a svegliarlo, stava bene, lui doveva dirlo alla madre, lei era felice, si era innamorata di un delfino rosa, un bufeo, e viveva con lui in fondo al fiume, se León avesse avuto bisogno di aiuto, bastava che facesse un fischio speciale, e i delfini rosa sarebbero accorsi.

Ogni pianta in Amazzonia ha uno spirito, così come ogni elemento, che sia l’acqua, il fuoco, il vento… Tutto è vivo e interagisce con l’uomo



Storie di anaconde talmente grandi che dormivano per decenni, se non addirittura secoli, e sopra di loro crescevano foreste intere; di laghi così nascosti e limpidi che avevano una madre – uno spirito protettore. Se qualche intruso veniva a disturbare le sue acque lei prendeva le sembianze di un anaconda o di una bellissima donna, e lo puniva con la morte. O di un demone che prendeva le sembianze umane di un compagno di viaggio, quando si entrava nella foresta, e che ti faceva perdere per mai più trovare la via del ritorno. Adoravo le storie. Lui diceva che erano vere e io non potevo smettere di ascoltare. Il suo compito di addormentarmi era un fallimento totale, ma piaceva sia a lui che a me. Poi un giorno il mio bel nonno di cui non si sapeva l’età precisa, che conosceva i segreti della giungla, e che non ha mai avuto un capello bianco, è morto, e per anni ho cercato qualcuno che mi raccontasse ancora quelle storie. I più nella città avevano dimenticato, o volevano dimenticare. Forse si vergognavano.


Tuttavia ho trovato tracce di queste storie nella vita quotidiana delle persone più umili. I ribereños, quelli che vivono lungo il fiume o che da poco si sono trasferiti in città per quel soldo in più. Si perde un martello e il colpevole è lo spiritello della pianta che cresce lì accanto. Ogni pianta in Amazzonia ha uno spirito, così come ogni elemento, che sia l’acqua, il fuoco, il vento… Tutto è vivo e interagisce con l’uomo. Spesso facendogli i dispetti. Ho poi scoperto che i curanderos erano quelli che ancora conoscevano queste storie. Come mio nonno, non le penserebbero mai come storie fantastiche. Che quell’altro mondo degli spiriti non si veda non vuol dire che non esista: non per le loro piante e per loro, che l’hanno visto con gli occhi e toccato con mano. L’ayahuasca è una bevanda che per le popolazioni indigene apre le porte al mondo degli spiriti. Aya – waska, dal Quechua: liana dei morti o degli spiriti, è il nodo di connessione tra due mondi. Forse il mondo lineare con il mondo circolare. Il mondo circolare è quello dove è possibile che una pianta abbia uno spirito e che questo spiritello voglia avere a che fare con noi. Il mondo lineare è quello dove un’affermazione del genere rischia una diagnosi di schizofrenia. Ma allora i ribereños soffrono di una schizofrenia non diagnosticata, o c’è qualcos’altro?



Ho bevuto questa bevanda, con grande rispetto per mio nonno e le sue storie, quando ho vissuto ad Iquitos durante gli anni caldi del suo boom turistico. La prima volta, esitando. Il sapore terribile della bevanda, mischiato ai pianti delle mie zie materne che incontravano i genitori defunti, mi ha turbata. Mi sarei messa a piangere anch’io così? Non andò così. Ho sentito l’essenza della giungla prendere forma davanti ai miei occhi. Mi sono sentita a casa.



Ma ho capito subito però che non è una bevanda per tutti. Ho visto gente a prima vista molto equilibrata andare totalmente fuori di sé durante la cerimonia notturna. Il mattino seguente risvegliandosi come persone a sé sconosciute. La domanda esagerata ha creato un’offerta fuori controllo e senza controllo. Non da parte delle autorità dello stato, per cui l’ayahuasca è legale e che comunque non ne capirebbero nulla, ma un autocontrollo dei curanderos stessi. Uno dei vecchi curanderos più rispettati del luogo mi ha detto che aveva in mente di creare un comitato etico su come e a chi dare l’ayahuasca. Il suo progetto non si concretizzò mai, forse perché era una risposta a qualcosa che non sarebbe rimasta a lungo in Amazzonia. L’ayahuasca, come le altre risorse dell’Amazzonia, è stata portata via dalla sua terra.



Voli internazionali carichi di stranieri, inizialmente hippies e poi via via di tutte le età, classi sociali e culturali, arrivavano al piccolo aeroporto di Iquitos. Alcuni venivano già sapendo dove andare, o credendo di saperlo, altri all’avventura, cercando lo sciamano. A loro volta, i ristoratori del centro di Iquitos hanno adattato i loro menu al mercato di coloro che venivano a bere il decotto. Ha un sapore orribile. I suoi effetti sono purgativi, si vomita e si può andare di corpo, e allucinatori. Secondo le varie tradizioni del curanderismo, prima di accostarsi alle medicine forti com’è appunto questa bevanda, non si può mangiare tutto. Si deve fare una dieta. E anche la dieta è diventata commerciale.



Diventò proverbiale la descrizione di una cerimonia di ayahuasca come nove anni di psicoterapia condensati in cinque ore di allucinazioni. Non va sempre bene. Alcuni sono morti sopraffatti dalla bevanda, stranieri o no, in balia di ciarlatani interessati, che non hanno saputo che l’ayahuasca non si può mischiare con psicofarmaci e somministrare a chiunque. Di soldi se ne sono fatti, e se ne continuano a fare. L’ayahuasca è di moda e ora che Iquitos è diventata una città brutta, sporca e disorganizzata, viene esportata per essere consumata in resort più confortevoli in Costa Rica o Messico, oppure in ville fuori di ogni sospetto in California, Vermont o Massachusetts, in circoli alternativi a Copenhagen o addirittura in Russia. Iquitos si sente ancora importante nel suo ruolo di porto, nel quale però al calare della sera rimangono solo gli ubriachi e l’immondizia del viavai della giornata.



Di recente sono uscita dalla città di Iquitos per l’unica strada che c’è, per andare a trovare mia madre. La strada è lunga meno di cento chilometri e finisce alla cittadina di Nauta. Per fare questo viaggio si prendono dei taxi comunitari. Quando i cinque posti sono pieni o di persone o di merci si parte. La cumbia alla radio suona sfrenata, oppure, quando non funziona, ci si può ritrovare in una bella conversazione tra estranei. Il tassista non smetteva di lamentarsi della calura che attanagliava la città da settimane. Gli ho chiesto se non fosse meglio piantare più alberi, o almeno lasciarli crescere. Certe foreste che ho visitato, anche le meno grandi, buttano un’aria fredda dal basso che ricorda l’aria condizionata, e questa è gratis, e innocua. Lui, nascosto dietro i suoi Ray-Ban finti, mi ha risposto che gli alberi e l’erba portano troppi serpenti. E la gente ha paura dei serpenti. Sono rimasta in silenzio per il resto del viaggio.



Nel 2000 la casa dove sono nata era ancora circondata dalla foresta. C’era una piccola laguna in fondo al giardino dove un albero intero era coperto da una ragnatela gigante. C’erano i Tuki Tuki, dalle lunghe gambe fine che venivano a pescare assieme ad altri uccelli dai colori e dai canti sorprendenti. C’erano cuccioli di caimani e li abbiamo sentiti chiamare la madre: hanno un verso tenero, uno che non ci si aspetterebbe da un predatore così temibile. Era una periferia di Iquitos dove si poteva ancora avere in un delfino rosa un parente. Era difficile pensare che potesse durare. Non è durato.

Si parla degli indigeni, ma chi deve prendere coscienza è il meticcio, che usa le tradizioni, avendole anche ripudiate e derise, per turismo e commercio



L’Amazzonia di mio nonno, piena di posti incantati e selvaggi dove la natura e l’uomo parlavano la stessa lingua, non c’è forse più, e qui non importa a nessuno – o quasi. Si parla bensì molto delle popolazioni indigene e delle lotte contro un’economia che toglie loro terre e coscienza di sé, ma credo, guardando Iquitos, che chi deve prendere coscienza soprattutto in questa Amazzonia sia il meticcio. Il meticcio che usa anche le tradizioni della propria terra, avendole in gran parte ripudiate e derise, per turismo e commercio. Il meticcio che vuole far parte, anche se raccattando le briciole. Un processo che ho riconosciuto in me stessa, anche io meticcia, quando da bambina provavo vergogna di essere per la mia parte amazzonica e preferivo presentarmi come svizzera. Era una vergogna che veniva da un’idea sbagliata della giungla. La giungla, “… una terra che Dio, se poi esiste, ha creato con rabbia…” come disse Werner Herzog nel documentario “Burden of Dreams” – nella versione italiana “Una nave carica di sogni”, la nave di Fitzcarraldo, di mio padre. Documentario girato quando ero in fasce. L’Amazzonia che mette paura per la sua rudezza e per la sua magia. E commuove per la sua vulnerabilità.



Paura e magia dei luoghi sono oggi l’esperienza, la vita, di un numero incomparabile di viaggiatori a ostacoli, migranti, esploratrici e capitani di ventura. Finalmente, per quanto riguarda me, la mia parte amazzonica, è una ricerca che per anni ha avuto a che vedere con un’idea statica di appartenenza. Vivere in Amazzonia e partecipare agli andirivieni di questa terra mi ha fatto guardare le cose in maniera diversa. Ha arricchito la versione che mi ero data da bambina, forse per proteggermi. Da bambina avevo trovato bella l’idea di essere cittadina del mondo, ma il mio cuore non aveva compreso il significato di questa frase.



In Amazzonia cercai un curandero che non avesse nulla a che fare con i turisti. Uno autentico – così la pensavo al tempo. Quando trovai Don Armando, uno shipibo piccoletto, dal viso gentile e dagli occhi di puma – da qui il suo nome, El Puma – lui mi disse: “Cara, tu hai la testa dura, ma non ti preoccupare, noi te la romperemo”. Non sapevo in quel momento se essere felice di questa prospettiva oppure se avere paura. Dopo tre cerimonie di ayahuasca in un isolotto raggiungibile solo per canoa, ho scoperto che non era solo la mia testa che si doveva rompere insieme alle sue trame, ma il mio cuore che doveva aprirsi per far spazio a tutte le origini che mantengo dentro di me. E’ una ricchezza potersi riconoscere negli odori, colori, suoni e inciampi dell’Amazzonia, così com’è bello riconoscersi nei cieli aperti sulle montagne svizzere e nelle città addomesticate, per poi ritrovare una confidenza così naturale con il parlare umbro, saper fare i cappelletti, distinguere le erbe di campo e sentirsi a casa accarezzate dalla tramontana. Questo me l’ha insegnato El Puma – forse. Comunque l’ho imparato, lo imparo.



Ricordo quando ho chiesto al rappresentante delle popolazioni indigene della Orpio – Organización regional de los pueblos indígenas del Oriente – Beltran Sandi Tuituy, che cosa pensasse della popolarità globalizzata dell’ayahuasca. Mi ha risposto molto semplicemente che le piante sono di tutti e di nessuno, fanno i viaggi che devono fare. Chi siamo noi per fermarle.

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