Scusi, come si indossano i libri?

L’accessorio di moda di questa estate è fatto di carta e, incredibile, vi si trovano stampate molte più parole rispetto a un post su Instagram e a un reel su TikTok. Chiacchierata con la ricercatrice Olga Campofreda, curatrice del Miu Miu Literary Club

“Le pieghe, gli intervalli, il tessuto pieno e il merletto aereo, le cuciture, gli orli sono elementi del ritmo esatto e dell’incognito indistinto, e perciò della poesia”. Un indebitatissimo Gabriele D’Annunzio intende pagare così, con un’ode-elogio, Elvira Leonardi Bouyeure, in arte Biki – uno dei nomi che dal 1936 definirono l’eleganza italiana – quando l’amante Luisa Baccara le saccheggia l’atelier, inaugurando dunque i cambi-merce tra letteratura e abbigliamento. Il pagamento andrà a buon fine. Non molti anni dopo, la potentissima dogaressa dello stile Diana Vreeland affida a “Harper’s Bazaar” l’esistenziale quesito: “Where would fashion be without literature?”, “Dove sarebbe la moda senza letteratura?”, con grande enfasi sul “dove” e non sul “cosa”, il che ha la sua importanza nell’assegnare a romanzi, poesie, testi e pièce il ruolo di motori primi della creatività. Anche qui, sofisticati baratti ad libitum. “Ed è nata proprio dalle parole, anzi da un carteggio tra me e la Signora» (certe volte, anche nel parlato le maiuscole si fanno sentire, ndr), “la realizzazione della sua idea di far conoscere (al vasto pubblico, si intende, per chi ha frequentato almeno il liceo classico sono tutte molto note, ndr) scrittrici ingiustamente dimenticate”.

Per chi non ha dimestichezza con la riflessiva moda ambrosiana, l’appellativo “signora” con la S in grande non può che identificare Miuccia Prada. L’idea è quella del fortunato Miu Miu Literary Club, cenacolo di autrici inaugurato lo scorso aprile al Circolo Filologico di Milano, con un’edizione centrata su Alba de Céspedes e Sibilla Aleramo (sì, disgraziatamente l’autrice-mito dell’autodeterminazione femminile per le nostre madri è del tutto ignota alle loro nipoti, per non dire di quella giovane collega che sul mensile di moda tanto internazionale il mese scorso ha dato della “sconosciutissima” ad Ada Negri, finalista premio Nobel, ndr). Un altro scambio proficuo. In seguito, il brand ha lanciato in varie città del mondo il progetto Summer Reads, edicole pop-up che sembravano uscite da un film di Wes Anderson, dove ricevere gratis un ghiacciolo più due libri a scelta tra “Persuasione” di Jane Austen, “Una donna” di Aleramo, e “Quaderno proibito” di de Céspedes: risultato, Instagram è stato invaso da copertine avvolte dal nastro con Miu Miu stampigliato all’infinito.

Il virgolettato di cui sopra appartiene all’organizzatrice del progetto, Olga Campofreda, nata a Caserta nel 1987, ricercatrice e scrittrice, cui non osiamo chiedere se il carteggio sia stato elettronico o analogico, anche perché l’immagine di Miuccia Prada solitaria che scrive missive con una stilografica da un’austera e lussuosa scrivania, è irresistibile (si scoprirà che si scrivevano via mail, peccato). Campofreda vive a Londra, dove lavora sia all’University College, sia all’Istituto Italiano di Cultura, coltiva dichiarato interesse per il gossip dei ricchi e famosi “che nel Regno Unito, per fare bella figura, si chiama celebrity culture», e insegna scherma alla Nazionale inglese Under 20. In libreria c’è l’ultimo romanzo “Ragazze perbene”, NN Editori. E per fine anno, si occuperà di due volumi, per Rina Edizioni, che recupererà articoli ed elzeviri di scrittrici e giornaliste di moda da fine Ottocento a metà Novecento.

Per costituire il circolo letterario, “la Signora” l’ha fatta contattare dal suo team (“all’inizio pensavo fosse spam, sa quelle truffe in cui un principe africano ti promette di renderti erede universale? Uguale. Poi ho deciso di rispondere”), dopo aver letto un suo saggio intitolato “Dai margini, oltre il cortile: le scrittrici dimenticate” per il Festival della Letteratura di Mantova, dove Campofreda moderava alcuni incontri sulle scrittrici del Novecento.

Quando si epifanizza sullo schermo durante una chiacchierata via Zoom, si comprende subito quanto sia antiquato il concetto secondo cui non si può giudicare il libro dalla sua copertina o una persona dal suo aspetto. Inalbera occhiali da vista da intellettuale organica cerchiati d’oro, collana brutalista in metallo e una t-shirt con la scritta “Joey Division”, ironico gioco di parole tra il mitico gruppo post-punk britannico degli anni Ottanta Joy Division, e Joey Potter, eroina del drammone tv Anni Novanta “Dawson’s Creek”, interpretata da un’adolescente Katie Holmes e pietra miliare nell’individuale Bildungsroman trentenni di oggi. Sia sincera, cos’hanno in comune moda e letteratura d’autore? “Moltissimo. A partire dal linguaggio. Si “taglia” un testo come un capo d’alta moda, si struttura una “trama” come quella di una stoffa così come una storia si lascia “tessere”. Moda e scrittura vivono inoltre lo stesso paradosso: immerse in realtà vorticose, l’avvicendarsi delle tendenze, l’evoluzione continua delle espressioni verbali, hanno la stessa aspirazione: raggiungere la classicità, eternizzarsi in una sola opera”.

La conversazione approda alla questione chi-fa-pubblicità-a-chi: sembra ieri che Jonathan Bazzi si metteva in posa allo Strega vestito con i Valentino ricevuti in regalo. Oggi, vedendo i finalisti dei premi letterari sfoggiare brand di lusso, ci viene un dubbio: dobbiamo scandalizzarci o unirci alla festa? “Penso che un certo tipo di moda, come un buon libro o una bella canzone, sia un prodotto culturale e come tale possa e debba essere comunicata. Non ci trovo nulla di strano o imbarazzante, anzi: si è sempre detto che la categoria dei letterati si conci malissimo – anche quando non è vero, ci sono stati per esempio autori elegantissimi come Tom Wolfe, Paola Masino o la stessa Alba De Céspedes – come appartenessero a un mondo che, se rappresentano perfettamente nei loro testi, poi nella quotidianità non li tange minimamente. Immersi in una dimensione eterea, si pensa sempre che debbano trascendere la contingenza: i soldi sono volgari, la moda è fatua, gli scrittori devono essere malvestiti per non tradire la sacra missione che per forza deve trovarli disallineati rispetto a quello che è il paesaggio socioculturale esistente».

E allora, perché in molti si è innescata una reazione infastidita, come quella causata da una proditoria invasione di campo, pur memori di Emanuele Trevi che andò a ritirare lo Strega nel 2021 con le sneakers della Lidl, scelta che trovammo ripugnante eppur intonata? “E ’colpa della misoginia che circonda non solo il sistema intellettuale, ma quello della formazione e dell’informazione. Quando le donne hanno cominciato a scrivere pubblicamente, l’unico spazio che era a loro concesso era quello delle rubriche di moda, e perciò hanno sfruttato quello spazio per analizzare la società. Matilde Serao scrive sotto pseudonimo degli articoli sull’Esposizione Universale del 1881 dove sottolinea che il vestire è una forma di quello che oggi chiameremmo soft power: la capacità di uno Stato di esercitare un forte ascendente grazie a strumenti immateriali come la cultura, l’intrattenimento, lo sport, il vestire. E sempre lei, in un altro pezzo, si meraviglia che i sarti non abbiano la stessa dignità e considerazione degli artisti, in generale dei creatori: sono intuizioni che ancor oggi vengono ostacolate, per non dire frenate. Si crede che la moda sia appannaggio delle donne e, di conseguenza, abbracci la dimensione della superficialità. E invece non si può staccare il vestire dalla semiotica: ogni elemento è significante. Per esempio, in “Ragazze perbene” ho inserito una scena in cui Clara, una delle protagoniste, due cugine di cui una si ribella alle consuetudini della provincia, per farsi vedere da un compagno di classe di cui è invaghita, va a scuola senza i soliti vestiti sformati per infilarsi i jeans Richmond della mamma… Verrà bullizzata e ostracizzata”.

Sono tempi strani. Il “Washington Post” sostiene che i libri siano i nuovi accessori cool, purché in perfetto match cromatico con l’outfit di stagione, tanto da giustificare la nascita di un nuovo mestiere, il book stylist. Su Instagram, Marc Jacobs ogni mese posta una foto con il romanzo del mese, Gigi Hadid si fa fotografare con “Lo straniero” di Albert Camus, Kaia Gerber si è inventata perfino un club bibliofilo. Molte maison del lusso uniscono il loro logo ad autori serissimi: da Valentino che ha trascritto alcuni passi di “Una vita come tante” di Hanya Yanagihara su molti capi per poi allearsi con l’International Booker Prize, alla libreria Saint Laurent Babylone al 9 di rue de Grenelle ricca di tomi rari, magazine, vinili e pezzi d’arte, curata dal direttore creativo Anthony Vaccarello fino a Etro che ha distribuito duecento volumetti della Piccola Biblioteca Adelphi come invito a una presentazione di un paio di anni fa, fino a Le Bon Marché, tra i più grandi centri commerciali parigini, che si è trasformato per qualche mese in una libreria colorata per il progetto “Mise en Page”.

Scusi, ma non teme che il fashion system stia vampirizzando gli intellettuali come affidabili testimonial, dopo la delusione di influencer che certo non mettevano Proust ma al limite Sophie Kinsella tra i loro autori preferiti? “A me e alle altre ospiti – Jhumpa Lahiri, Claudia Durastanti, Sheila Heti, Viola Di Grado, Selby Wynn Schwartz, Xiaolu Guo – è piaciuto moltissimo essere vestite Miu Miu. Certo, mi rendo che il rischio di iniziative come quelle che ha appena detto è l’uso performativo, decorativo del libro. Ma è un rischio che non abbiamo corso, in questo caso”. Come fa a dirlo con tale sicurezza? “La signora Prada ha dichiarato che il suo intento è essere utile, creando connessioni tra donne e politica, donne e società, donne e famiglia. Tutti i nostri incontri erano gratuiti, in lingua inglese e visibili su YouTube. A partire da questi libri si sono create discussioni che durino nel tempo e non solo per dare visibilità al brand. Solo quando una grande realtà aziendale vuole incidere sulla quotidianità di tutti, anche di chi non acquisterà i suoi prodotti, ne possiamo valutare la sincerità”. Cioè, Olga: mi sta dicendo senza dirlo che non è un caso che allo Strega nessuno della cinquina dei finalisti sia stato vestito da Miu Miu? “Io non le dico nulla, se non augurarmi di ripetere questa esperienza”.


Bibliografia minima. Fra le decine di saggi, raccolte, antologie scritte negli ultimi vent’anni sul rapporto fra scrittura e moda, anche giornalistica, di scrittori e scrittrici universalmente noti per la narrativa come Honoré de Balzac, Marcel Proust e Paola Masino, cinque sono davvero imperdibili: “The Penguin book of twentieth Century fashion writing” di Judith Watt (Viking, 1999), “Dressed in fiction” di Clair Hughes (Berg, 2006), “Fashion in fiction. Text and clothing in literature, film and television”, di Peter McNeil, Vicki Karaminas a Catherine Cole (Berg, 2009), “Fashion writing and criticism” di Peter McNeil e Sandra Miller (Stockolm University Press, 2014) fino a “Fashion criticism: an anthology”, curato da Francesca Granata per Bloomsbury nel 2021, che raccoglie gli scritti di moda giornalistici più interessanti da Oscar Wilde in “The Woman’s world” fino a Robin Givhan. È invece in via di aggiornamento “La moda è un romanzo. Stile ed eleganza nei capolavori della letteratura”, scritto dalla curatrice di questo inserto nel 2010 per Cairo Editore

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