Così i Paesi Bassi sono diventati una nazione capace di vincere nell’atletica leggera

Nei cinquant’anni prima di Tokyo la squadra Oranje aveva raggiunto 4 podi. In Giappone 8. a Parigi 2024 punta a raddoppiare: investimenti e infrastrutture pagano. E gli inverni sempre meno freddi hanno dato una mano al progetto

La rottura col passato è in una notevole frase a caldo. “Nell’atletica leggera potevamo contare quattro medaglie olimpiche negli ultimi cinquant’anni”, diceva Charles van Commenee, l’allora numero uno della federazione olandese. “Qui a Tokyo ne abbiamo vinte otto in dieci giorni”. Altri tre anni sono passati. E i Paesi Bassi ai Giochi di Parigi non si presentano nemmeno più come nazione emergente. Ma da potenza della categoria. Secondo Nielsen-Gracenote, il pronosticatore virtuale più accreditato, gli Oranje saranno protagonisti della miglior Olimpiade di sempre: 16 ori vinti, quinto posto nel medagliere, 34 podi. Metà di questi, si stima, arriveranno dagli atleti in gara allo Stade de France. Com’è possibile che un paese così piccolo, di ciclisti e pattinatori, senza tradizione sportiva nella corsa e dintorni, stia per entrare tra le migliori nazionali dell’atletica leggera?

Una rapida occhiata al Team Netherlands ai blocchi di partenza. Non c’è più soltanto l’eccezionale talento di Sifan Hassan, bicampionessa olimpica in carica nei 5.000 e nei 10.000 metri piani che punterà a ripetersi. Né la longevità di Churandy Martina, alla sua sesta Olimpiade. Oggi la stella nazionale è Femke Bol, regina mondiale dei 400 metri (piani, a ostacoli, staffetta): troppo giovane a Tokyo per andare oltre il bronzo, ora cerca l’en-plein. Attorno a lei un gruppo di velociste di altissimo livello – è soprattutto al femminile che l’Olanda ha messo il turbo, ben oltre l’atletica: 162 donne su 276 partecipanti. Mentre gli uomini – su tutti Niels Laros, primatista mondiale Under 20 nei 1.000 metri piani – vanno a caccia di medaglie nel mezzofondo. Non c’è distanza, insomma, in cui non si vedrà almeno una canotta arancione al via.

Le ragioni dell’exploit vanno cercate in un altro successo, più lontano: Sydney 2000. Dove contro ogni previsione, l’Olanda centra 12 ori e balza all’ottavo posto nel medagliere. A trascinarla sono l’hockey, l’equitazione, soprattutto il nuoto e il ciclismo. L’unica pecca? Dell’atletica non c’è traccia: soltanto 9 partecipanti su 231, nessun podio. Così, una volta tornati ad Amsterdam, i vertici federali decidono di sperimentare un massiccio piano di ristrutturazione. E di trasformare il centro sportivo di Papendal, nei dintorni di Arnhem, nel paradiso dei corridori. Sull’onda di quel che rappresenta il de Vechtsebanen di Utrecht, eccellenza globale per il pattinaggio su ghiaccio. I lavori iniziano nel 2005: piste rimesse a lucido, inediti circuiti indoor, nuovi spazi anche per il ciclismo. Il progetto punta a raccogliere l’élite nazionale delle grandi discipline olimpiche anche attraverso la reciproca commistione. Con tanto di hotel, ristoranti, sedi di allenamento dedicate ogni giorno dell’anno. Una cittadella. Una fabbrica di medaglie.

Negli anni il progetto riesce. E viene propiziato da una congiuntura climatica tecnicamente sfavorevole: inverni più miti, canali sciolti. Gli olandesi hanno sempre meno occasione di indossare i pattini sin dall’infanzia (ma a livello agonistico sanno preservare il dominio). Al contempo, correre – in una terra verde e magnificamente piatta – diventa un’attività sempre più alla portata. L’Atletiek Unie ha saputo intercettare questo momento. E a Parigi manda in scena 45 campioni: il quintuplo rispetto a Sydney. Sono la punta di un movimento ampio, competitivo, ormai messo alla prova da duri processi di selezione. “A Papendal abbiamo trovato una casa”, spiega Bol, una t in meno del leggendario Usain. “È l’etica del lavoro comune a portarci ai risultati”. Si è visto ai Mondiali, agli Europei: manca solo l’Olanda a cinque cerchi. Aspettiamo domani.

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