L’estrema Laura Betti raccontata da chi l’ha conosciuta

L’attrice “vedova” di Pasolini protagonista di una biografia di Renzo Paris pubblicata per il ventennale della morte. “Terribile è parola troppo poco complessa per definirmi”

Laura Betti la temevano in molti. Era una donna debordante in ogni senso possibile. Eccessiva. Stravagante. Esuberante. Aggressiva, molto aggressiva. Anche quando voleva essere gentile, riusciva a essere aggressiva. Ti piantava addosso due occhi azzurrissimi e strafottenti e ti veniva voglia di scappare, e magari invece ti voleva bene e quello era il suo modo di dirlo. Ma certo ti voleva bene – se ti voleva bene – finché rigavi dritto, senza contraddirla insomma. Altrimenti erano scenate e fine dell’amicizia. Con tutti tranne che con Pier Paolo Pasolini, il suo grande unico amore. Amore impossibile naturalmente, ma lei lo considerava suo marito. Lui taceva e si sottraeva, ma le era indubbiamente affezionato. Come a una seconda madre.

Questo sapevo di lei, della sua leggenda più che di lei veramente, quando ventisettenne giornalista del Messaggero fui mandata a intervistarla. Ero un po’ spaventata. Sapevo che era umorale, che chiamava “ome” le donne oppure, all’esplodere del femminismo, “cazze”, e volgeva al femminile il nome degli uomini (il suo amico Moravia, per dire, era “la Moravia”), e sapevo che le donne non le erano particolarmente simpatiche, le femministe men che mai. All’inizio del novembre 1975 Pasolini era stato ucciso barbaramente. Ne eravamo rimasti sconvolti tutti, ma lei di più. Lei si era dedicata a costruirgli il monumento e a cercare in tutti i modi – inutilmente – di costringere la giustizia a fare luce su quel caso rimasto misterioso e oscuro, quasi che lo scrittore, omosessuale e politicamente scomodo, fosse andato a cercarsela una morte tanto sanguinosa e orrenda. Laura comunque ne raccoglieva le carte per il progetto di un Fondo Pasolini che poi nel 1983 avrebbe ufficialmente fondato.


Andavo a intervistarla controvoglia e preoccupata. Doveva leggere, per il secondo programma radiofonico, alcuni racconti di Ennio Flaiano, Heinrich Böll e Woody Allen. La raggiunsi in sala registrazione a via Teulada. La prima cosa che mi stupì fu trovarla vestita di nero e di viola. Nessuno dei miei amici attori avrebbe mai indossato il viola in un’occasione di lavoro. Lei sì. E fumava una sigaretta via l’altra. Forse per questo aveva quella voce rauca bellissima che trovavo “calda e materna” e che subito mi rassicurò. Come anche il suo sorriso accogliente e gli occhiali da sole che metteva e toglieva quasi a spegnere la minacciosa carica di uno sguardo potentemente azzurro. Occhiali da sole non giustificati dall’ambiente chiuso e dal fatto che eravamo ai primi di marzo. Di Pasolini mi guardai bene dal chiederle. Chiacchierammo dei tre scrittori che aveva scelto e la sua competenza letteraria finì col mettermi del tutto a mio agio, anche perché ogni tanto divagava parlandomi dei suoi gatti, argomento che mi trovava complice, e poi si lamentava – come con una vecchia amica – di cure disintossicanti cui avrebbe dovuto sottoporsi quasi scusandosi di essere tanto grassa. Forse la magrolina fragile fragile che ero le suscitava tenerezza? Insomma, andò tutto benissimo. E a un certo punto le confessai di aver temuto la sua fama di “donna terribile”.

“Terribile è una parola troppo poco complessa per definirmi” mi disse sorniona, senza irritarsi minimamente. “Il punto è che in un mestiere come il mio, essere intelligenti è sinonimo di terribilità. A un’attrice non viene richiesta l’intelligenza, anzi è considerata un difetto. Perciò hanno da subito fatto l’equazione: la Betti capisce, quindi la Betti è una scassacoglioni”. (Io poi naturalmente nell’intervista mi guardai bene dal censurare le sue parolacce, cosa che le andò a genio e che sancì definitivamente la sua simpatia nei miei confronti).


Certo non doveva essere stato indifferente il fatto che l’anno precedente aveva pubblicato un romanzo autobiografico, Teta veleta (titolo ispirato a Pasolini, che così definì la sua precoce scoperta delle inclinazioni omoerotiche), e che io lo avessi letto. Me ne sembrò addirittura grata e cedette di nuovo a una confessione: “L’esordio letterario mi complica la vita per le ragioni che dicevamo prima. E’ una rivelazione di non stupidità che nella professione di attrice pesa”. Convenni, da femminista convinta quale ero (e sono) che il problema invade anche altri campi, non riguarda solo le attrici. Ci salutammo che eravamo diventate amiche. Oltretutto abitavamo vicinissimo, intorno a Campo de’ Fiori: lei in via Montoro e io in vicolo del Giglio. Così cominciai pure a essere invitata a qualcuna delle sue celebri cene.


Quelle che puntualmente ritrovo nel libro di Renzo Paris a lei dedicato, Madame Betti (165 pagine, 18 euro) pubblicato adesso da Eliot anche per celebrarne il ventennale della morte. Nata nella provincia di Bologna, a Casalecchio di Reno, il primo maggio 1927, Laura Betti è morta in seguito a una brutta caduta in casa il 31 luglio del 2004 al Policlinico Gemelli. Era piena estate e il medico che l’aveva in cura non era a Roma. E così altri amici che avrebbero potuto soccorrerla prontamente. Era diventata grassissima, molto più grassa di come posso ricordarmela io in quei lontani anni Ottanta. Nel libro di Paris sono spassose le scene in cui, così grassa, cadeva in terra finendo incastrata nella porta della cucina, che era una di quelle porte basculanti da saloon, che lei oltretutto chiudeva con un lucchetto chissà perché. E poi qualche amico doveva faticosamente liberarla e rimetterla in piedi. Sembra una scena da fumetto che si è rivelata tragica. Come sono tragici i tanti racconti di litigi proprio con chi fino a un attimo prima era un carissimo amico. E allo stesso Paris capitò, dopo trent’anni di amicizia, tempestosi ma sostanzialmente affettuosi, di essere scaricato di colpo per un articolo che lui aveva scritto sull’Espresso non abbastanza ligio a quella adorazione pasoliniana che Betti pretendeva sempre e comunque.

Madame Betti però non è una biografia. Non si viene a capo del mistero che fu quella donna indagando nella sua vita. Anzi forse il carisma dell’attrice ingovernabile, dell’amica di tanti intellettuali dal carattere al limite del sopportabile, della musa ribelle dei registi importanti con cui ha lavorato, della cuoca divina che intratteneva gli invitati fra insuperabili lasagne e pettegolezzi irripetibili, e della sua assurda pretesa di essere considerata la vedova di PPP, ne viene fuori intatto se non potenziato. Del resto a Paris interessa la propria esistenza più di quella altrui. Gli interessa il passato irripetibile, la ricostruzione di qualcosa a cui lui stesso ha partecipato in prima persona. L’ha già fatto con i suoi libri su Amelia Rosselli, su Alberto Moravia, sullo stesso Pasolini. Sono storie di amicizie con personaggi stravaganti, zeppe di ricordi esclusivi e inimitabili. Molto tenere, a volte irritanti, pervase di malinconia.


È nato nel 1944 Renzo, a Celano, nella provincia dell’Aquila. È piovuto a Roma a studiare e a partecipare alla rivolta studentesca e come tanti della sua generazione – che volevano però fare non tanto i rivoluzionari ma i poeti, gli artisti, i romanzieri – ha avuto buon gioco a entrare nelle grazie di scrittori che in qualche modo volevano loro pure partecipare a quei tempi di contestazione, capire i nuovi giovani che sembrava avessero chissà quanto da dire e da fare. E così le pagine più coinvolgenti di questo libro non sono tanto quelle sulla “giaguara” o la “Miss Flash” o la “Maga Circe” o “la Pazza” (come l’aveva ribattezzata Moravia) o semplicemente Madame, ma tutte le altre in cui lei è pur sempre protagonista ma su uno sfondo storico-sociale confuso, come erano confusi quei giorni, pieni di colori, illusioni anche artistiche, e di fantasia.


C’è Madame, ci sono Moravia, Pasolini, Arbasino, Visconti, Elsa Morante, i fratelli Taviani, Enzo e Flaminia Siciliano e persino Felix Guattari in questo libro. E c’è Biancospino, che è stata la prima moglie di Renzo Paris, poetessa di rilievo e femminista della prima ora. Facile riconoscervi Biancamaria Frabotta, che anche lei non è più in questo mondo. Ma la storia del loro amore, diventato poi matrimonio, si fa emblema della “bella confusione” degli anni Sessanta e Settanta che poi, vista così da vicino, tanto bella non era, anzi si rivela piena di dolore non digerito, di complicazioni anche inutili, di errori madornali di comportamento e di interpretazione. Che c’entra questo con la giaguara (definita così per come si muoveva in palcoscenico)? Con la Miss Flash che i fotografi rincorrevano per via Veneto e che una volta fece arrabbiare Mastroianni fino a farlo uscire dai gangheri e a beccarsi negli occhi il whisky del suo bicchiere? Con la maga Circe che l’estate affittava al Circeo una villa piena dei soliti ospiti nullafacenti e scrocconi? Niente e tutto. In qualche modo è un simbolo, una controparte, una forma di rappresentazione di un’epoca e delle sue contraddizioni. Nella società come in letteratura, dove la neoavanguardia rimescolava le carte rendendo illeggibili romanzi e poesie, e tutto doveva essere estremo. Dove il festival di poesia di Castelporziano che doveva celebrare una rinata voglia di comunicarli i versi, ne diventava invece anche simbolicamente – con la caduta finale del palco piantato sulla spiaggia – il funerale.

Betti era decisamente estrema, come donna, come artista, come amica. Il memoir di Paris ne è un ritratto fedele quanto più la scompone come in un quadro astratto. Come in un fumetto dove è ridicola persino, con le sue furie e le sue scenate, con la volgarità esibita o quel maltrattare gli amici appellandoli “cretino”, “stronzo”. È il prezzo da pagare per frequentare un genio? Era poi un genio Laura Betti? Ai posteri l’ardua sentenza: si potrebbe cavarsela così. Intanto però bisogna tramandarne il nome e le imprese, e non certo per chi l’ha conosciuta e ricorda quei tempi, quanto per chi non l’ha mai sentita nominare magari, e non ha idea di quanto potesse essere rappresentativa di uno stare insieme, e non solo fra artisti, di un condividere e litigare continuamente su tutto. “Chi è Laura a vent’anni dalla morte?” si chiede Paris. E dà diverse risposte: una pupattola bionda, “una donna che custodiva un dolore immenso”, un’attrice di culto, una che amava i vincenti, una vera pazza, la Madame Verdurin italiana, quella che metteva in scena continuamente e soltanto se stessa, l’“intellettuala” che non voleva essere?

La sensazione è che si possa parlare di lei solo col punto interrogativo, senza raggiungere nessuna certezza. È il suo fascino e il suo limite, il suo mistero. Per tutto il libro Paris non fa che smontarla, come intanto smonta la propria vita, per rimontarla certo, ma sempre con un pezzo messo nel posto sbagliato o un altro che manca. Come le bambole con cui si dice fissato fin dall’infanzia e con cui giocava come col meccano, smontando e rimontando appunto. Bambole bionde dal visetto tondo tondo e i grandi occhi sbarrati e azzurri. Ma guarda un po’. Proprio come lei, come Laura Betti il cui vero nome era un meno musicale Trombetti. Ora, a cercarla su YouTube per ascoltarla cantare Kurt Weill o le canzoni scritte per lei dai Pasolini, i Calvino, i Moravia e gli altri amici intellettuali o a sentirla nella Ballata dell’uomo ricco che interpretava con Paolo Poli, colpisce una malia, una forma di genio – sì – come buttato via, un senso di spreco calcolato, raro, affatturante, sicuramente presuntuoso. Ma unico.

Com’era unico il suo modo di attraversare la vita degli altri, indimenticabile e violento. Ma qui passo la parola a Emanuele Trevi che l’ha raccontato benissimo nel suo libro sui martirî (verbali) ricevuti dalla Betti, Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie, 2012): “Ci sono pur sempre degli individui che svolgono nella vita dei loro simili un ruolo che non saprei definire meglio che catastrofico”. Laura Betti era uno di questi, non ci sono dubbi. Ma esercitava il suo potere erotico-distruttivo esclusivamente sui maschi, sulle tante “zoccolette” (così ribattezzava i più giovani amici maschi, con consueto amoroso disprezzo). Le donne erano troppo povera cosa per attirare simili attenzioni? O era un esercizio di vendetta? Forse avrebbe voluto essere un maschio lei pure, forse voleva rifarsi dell’inevitabile, radicale rifiuto che le aveva sempre opposto il suo unico grande amore omosessuale. Forse.

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