Una pallottola cambia tutto, ma non la realtà

Perché abbracciare il trumpismo è ancora il modo peggiore per essere alternativi alla cultura dell’odio

Una pallottola, lo sappiamo, può cambiare tutto, può cambiare il corso di una campagna elettorale, può cambiare la storia di un paese, può cambiare la traiettoria di un politico. Ma può cambiare la realtà? L’attentato a Donald Trump, sopravvissuto come sapete a un proiettile che ha colpito il suo orecchio ma che avrebbe potuto trapassargli il cervello, ha rimesso al centro del dibattito un tema che negli ultimi mesi è tornato a essere drammaticamente attuale, e non solo per i colpi sparati contro l’ex presidente americano. La cultura dell’odio c’entra con l’attentato a Trump ed è fuori discussione il fatto che chi ha sparato quei colpi abbia attinto alla retorica tossica di chi ha trasformato Trump non in un avversario da battere ma in un obiettivo da eliminare. Chi dice che Trump è in qualche modo responsabile della cultura d’odio che ha egli stesso creato commette naturalmente un errore, perché la cultura dell’odio è a compartimenti stagni, è fatta di vasi non comunicanti ed è un insulto all’intelligenza provare a sostenere l’insostenibile, ovverosia che in fondo Trump un po’ se l’è cercata, perché ogni atto estremista altro non è che una risposta estrema alla chiamata alle armi di un altro estremista.

Il problema, se lo si vuole affrontare con un briciolo di serietà, è molto diverso ed è legato a una questione che anche nell’attentato di Trump è emersa con chiarezza, alla luce del sole, e che si può articolare sviluppando alcuni punti. O meglio: alcune domande. Prima domanda: essere l’obiettivo di una forma di estremismo ti rende automaticamente un argine contro l’estremismo? Seconda: l’estremismo che individua un obiettivo da colpire non andrebbe studiato senza superficialità anche quando l’obiettivo preso di mira non rientra fra le proprie simpatie politiche? Terza domanda: la ricerca di una matrice politica, ideologica e culturale di fronte a un gesto estremista, non va ricercata anche quando gli obiettivi colpiti dagli estremisti non rientrano all’interno delle proprie simpatie politiche?

Il tempo ci dirà, ovviamente, quali sono le ragioni che hanno spinto l’attentatore a colpire Trump. Ma quello che il tempo non ha bisogno di dirci è che le stesse severe domande che ci si pone oggi dinnanzi all’uomo che ha quasi ucciso l’ex presidente americano andrebbero poste anche quando gli obiettivi colpiti dagli estremisti hanno profili diversi da quello di Trump. E da questo punto di vista è curioso che le stesse giuste domande che molti esponenti della destra mondiale si stanno ponendo sull’attentato a Trump – chi ha armato quella violenza, chi l’ha fomentata, chi l’ha alimentata, chi l’ha favorita – non vengano poste quando vi sono altri estremisti che vanno in giro per il mondo ad attingere con disinvoltura all’arsenale dell’estremismo complottista della destra xenofoba, razzista e nazionalista. Se volesse dare un contributo reale alla lotta contro l’estremismo, la destra che oggi denuncia giustamente la violenza contro Trump dovrebbe, compresa la destra italiana, cogliere l’occasione per denunciare con forza ogni tipo di linguaggio violento, ogni tentativo di sovvertire le istituzioni democratiche, ogni tentativo di rimettere in discussione i valori minimi di una democrazia liberale, ogni tentativo di trasformare i propri avversari politici in bersagli da colpire. Una pallottola, lo sappiamo, può cambiare tutto, può cambiare il corso di una campagna elettorale, può cambiare la storia di un paese, può cambiare la traiettoria di un politico ma non può cambiare la realtà dei fatti. E non può farci dimenticare che voler combattere l’estremismo senza combattere anche il trumpismo significa non voler capire che non si può combattere l’odio senza combattere tutti i promotori della violenza in una democrazia. E per essere alternativi alla cultura dell’odio, cara Meloni qui si parla anche di te, il trumpismo bisogna combatterlo senza abbracciarlo e senza estendere, come detto ieri da David Frum sull’Atlantic, un perdono implicito alla persona più violenta nella politica statunitense contemporanea.

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  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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