Michelle Obama sarebbe in grado di far scomparire l’arancione maschio alfa tingendolo di nero

Le cose non sono mai semplici, ma nemmeno impossibili, sopra tutto in politica che è l’arte del possibile. Ora non è che bisogna linciare Joe Biden perché ha ottantuno anni. Mao ne aveva ottantaquattro quando è morto in carica. Chou En-Lai, forse il politico più grande del secolo, ne aveva solo tre meno di Biden. Kissinger, che ha fatto il mondo com’è stato fino a ieri, è morto lucidissimo a cento anni passati. Mattarella, che Dio ce lo conservi, ne ha 82. Non è che è testardo, Biden, è che è il presidente degli Stati Uniti da quattro anni, regolarmente eletto e oggetto il 6 gennaio del 2021 di una mezza insurrezione trumpista che ancora grida vergogna al cospetto del cielo stellato della morale comune e della bandiera americana. Ha fatto bene all’economia, al lavoro, all’industria, alle infrastrutture, alla finanza, alla tecnologia di cui gli Stati Uniti sono e restano all’avanguardia, e ha fatto bene al mondo, con qualche errore ma con una linea di appoggio all’asse del bene contro l’asse del male, e di amicizia transatlantica con gli europei e con lo stato degli ebrei sotto pogrom, e scusate se è poco. Niente di più normale per un presidente in carica che ripresentarsi per essere rieletto. Pensare che in questi quattro anni, salvo sonnellini e le sue solite gaffe di carriera, abbia vagato per i boschi in una condizione di irresponsabilità senile, maschera di sé stesso, è grottesco. C’era, punto, Joe was there, come diceva Reagan di George Bush Sr., ed era il Potus, timbrava e firmava gli atti pubblici per i quali passerà alla storia. L’obiezione dell’età non è dirimente in sé. Ma la performance della mente e del carattere, quello sì, quello è dirimente, specie in una grande democrazia moderna onorata e al tempo stesso gravata dal dovere dell’immagine in una campagna elettorale e nella scena pubblica. Tutti hanno visto che non ce la fa a sostenere il conflitto dialettico con un avversario barbaro e bugiardo, forte e malizioso, maligno e privo di scrupoli.
 

La sua vice parte battuta in tutti i sondaggi. Non sembra opportuno lo sostituisca, anche se alla fine chissà. I governatori e i senatori democratici sono pezzi da novanta, ma sono relativamente sconosciuti sul piano nazionale. Tutti i sostituti naturali sono a rischio. L’unico vantaggio, con loro, è che si aprirebbe una battaglia politica che potrebbe oscurare il trumpismo per la breve stagione delle convention e alla fine essere convincente. Ma è un rischio grosso. La divisione potrebbe essere il segnale finale di una disfatta autoprocurata. Michelle Obama è universalmente conosciuta e riconosciuta come una donna in gamba e ha un’esperienza di otto anni alla Casa Bianca, senza mansioni ufficiali, tranne quelle della First Lady, ma nella contiguità quotidiana con i meccanismi di formazione delle decisioni, giuste o sbagliate. Il fattore importante, come si comincia a dire nei corridoi della Reuters e della politica americana, è che se chiamata all’unanimità, se accettasse, e sono due “se” grandi come una casa ma superabili, sarebbe in grado di far scomparire l’arancione maschio alfa tingendolo di nero, di femminile alfa-plus e di una retorica unificante da far impazzire le folle liberal, i giovani, le donne, le minoranze e le maggioranze, le constituency piuttosto ampie dei democratici americani dopo quattro anni di successi veri anche se non attribuiti per debolezza di leadership comunicativa. L’odio della destra internazionale che la circonda sarebbe un carburante formidabile per la sua candidatura, e Michelle ma belle, sont des mots qui vont très bien ensemble, my Michelle, prenderebbe letteralmente a calci nel culo il revenant della scala mobile della Trump Tower. E allora, che cosa aspettano?

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