Per favore, possiamo evitare l’ennesima collezione d’archivio?

In molti anni di lavoro da designer dietro le quinte di brand più o meno conosciuti, ho raccolto capi di epoche diverse, frequentato vintage shop e mercati segnalati dal tam tam sotterraneo della moda, guardato con occhio vigile pure i guardaroba familiari, casomai la zia avesse deciso di disfarsi della borsetta di perline anni Dieci regalatale da chissà quale parente (lo ha fatto, se ne è liberata a mio favore).

L’attività di ricerca di studio, mi ha portato all’accumulo di circa duemilacinquecento fra capi e accessori: una cifra importante che, per quanto non paragonabile agli archivi riconosciuti e celebrati, era comunque bisognosa di un’organizzazione più precisa del semplice atto di appendere i capi con un cartellino di identificazione. Da questa esigenza, è nata la mia decisione di frequentare un corso di archivistica per la moda, uno dei pochissimi specifici esistenti in Italia nonostante l’offerta generale di corsi sul tema sia sovrabbondante, per non dire bulimica. Studiare è bellissimo, come lo è approfondire gli argomenti amati, e forse la mia raccolta avrà finalmente una disposizione sensata. Contemporaneamente, però, non riesco a reprimere una crescente avversione per l’attuale uso degli archivi nella progettazione delle collezioni. Non è una contraddizione, soltanto la conseguenza di un eccesso che si è trasformato in noia e fastidio.

Le analisi delle sfilate di commentatori a vario titolo (molti “presso se stessi”) si dispiegano in lunghi, pedanti elenchi di “riferimenti” e gare a chi ne riconosce di più, salvo dividersi immediatamente, anzi polarizzarsi, tra il sostegno alla pratica archeo-filologica, all’iconicità, lei stessa più che abusata anche nel lessico, alla “riconoscibilità” (ma da chi, al di fuori del settore?), fino alla condanna senza appello di questa modalità produttiva, come se i designer, deprivati di ogni amor proprio, si rifugiassero nei soli copia e incolla più retrivi.

È successo per Valentino, con il debutto di Alessandro Michele nella collezione Resort inizialmente non destinata alla stampa (forse un test in vista della passerella e per la quale ci sarà il tempo di correggere il tiro e soprattutto lo styling), ed è successo lo scorso marzo per Seán McGirr con Alexander McQueen: una sfida non semplice che lo ha costretto in tutte le interviste ex post a cercare una legittimazione enumerando come in un rosario i riferimenti alle collezioni storiche di Lee degli anni Novanta. McGirr è nato nel 1988, e per quanto la Gen Z dei futuri acquirenti possa apprezzare una generica eredità punk, quel vissuto complesso e tormentato che caratterizzava il fondatore non gli appartiene (e fortunatamente). Le citazioni scivolano così nell’esercizio scolastico che blocca la ricerca di strade nuove, di un’identità estetica personale finalmente libera da un passato sempre più ingombrante. Demna, alla sua quarta collezione Haute couture per Balenciaga ha dichiarato i tre-quattro elementi storici sui quali ha costruito il suo progetto, le forme a bozzolo, i cappelli, le maniche a tre quarti, convinto forse di aver assolto a un obbligo e di potere andare oltre con la sua visione, ma gli indagatori della rete hanno subito identificato altre fonti, precisamente in Martin Margiela, con il quale Demna ha lavorato dal 2009 al 2013: il passato non perdona, internet neppure.

Non è colpa dei designer (non riesco a non provare comprensione per la categoria e per un lavoro sempre più complicato), quanto piuttosto della fretta, delle presentazioni di collezioni che si susseguono senza soluzione di continuità e che necessitano di idee facilmente identificabili e comunicabili. Gli heritage delle maison e gli archivi di ricerca svolgono un meritorio lavoro di conservazione di un patrimonio creativo e artigianale, ma si sono riconvertiti in bancomat per idee pronto cassa, valuta molto pregiata quando non si ha il tempo per pensare, per sperimentare, per sbagliare (eventualità non contemplabile) e cambiare strada. Se poi il passato ci fornisce in più il sacro valore della nostalgia rispetto a un futuro quanto mai incerto i reparti comunicazione festeggiano, come nelle pubblicità anni ‘80 dei gelati e dei panettoni, industriali sì, ma di presunta antichissima tradizione.

In questo modo però viene a mancare la bellezza del processo creativo, l’insieme di elaborazioni mentali e prove di manifattura che cedono il passo a un atteggiamento inerziale di un settore concentrato solo su se stesso: nell’impegno ombelicale e ossessivo di rilettura  della propria storia forse c’è la difficoltà di sintonizzarsi bene sul presente e di leggerne le necessità. La moda, quella riconosciuta come tale dagli addetti ai lavori, tende ad essere un “affare privato”, mentre il mondo fuori spesso crea le proprie tendenze: opinabili, ma reali. È qualcosa di simile a quanto avviene anche nell’arte, anch’essa tanto devota alle rivisitazioni da diventare post-moderna prima e post-contemporanea ora: noi, senza accorgercene, siamo immersi nella post moda.

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