Trump dice di avere già scelto il vice, ma i suoi influencer continuano a fare pressioni

Con un candidato presidente nei guai con la giustizia, il vicepresidente non è un ruolo da poco in questo 2024 elettorale. Vista la sua natura antipolitica e la mancanza di esperienza a Washington, nel 2016 Donald Trump scelse di farsi affiancare dal silenzioso e pio Mike Pence. Con la sua religiosità controbilanciava i divorzi di Trump, con il suo essere dell’Indiana controbilanciava la newyorchesità di Trump – una Gomorra per i redneck battisti. Pence poi finì per esser minacciato dalla folla il 6 gennaio quando decise di certificare il voto a favore di Joe Biden: “Impiccatelo”, urlavano i vichinghi del movimento Maga. Dopo un tentativo di sfidare Trump alle primarie con lo slogan “io lo conoscevo bene”. ora Pence è entrato nel dimenticatoio. Chi sarà il prescelto per affiancare The Donald nei comizi? Trump è imprevedibile nelle sue scelte, la buona disposizione verso qualcuno – dicono i suoi biografi – può cambiare nel corso di un pranzo, basta un abbigliamento sbagliato, una battuta infelice, o troppa poca devozione. Nel frattempo, la campagna di Trump ha iniziato a mandare dei formulari da compilare ai possibili vice. 

   

Il dibattito di Atlanta della scorsa settimana, momento cardine di questa stagione, è servito a Trump per fare un ulteriore provino. Ma ancora non ha esplicitato la sua scelta (ma ripete di averla già presa) perché gli piace tenerli tutti sulle spine, come faceva quando era il protagonista di “The Apprentice”, il reality che l’ha consacrato al nazionalpopolare, dove la sua battuta era: “Sei licenziato!”. In più riceve pressioni da tutte le parti per trovare la persona giusta per raccogliere i voti che gli mancano. Nei giorni più intensi del processo di Manhattan, sua moglie Melania non c’era, ma dietro di lui si vedeva un piccolo esercito di candidati vicepresidente, o comunque persone che vogliono essere prese in considerazione. Nessuno si butta nell’arena chiaramente. “Se lui mi vorrà, io ci sarò”, dicono nei talk show della Fox, come se parlassero di una chiamata divina. Nei gruppetti di fedeli che si vedevano fuori dal tribunale, attaccando ogni tanto i giudici ai microfoni, c’era JD Vance. Oggi il senatore dell’Ohio è dato come uno dei possibili vicepresidenti, anche se non piace troppo a Rupert Murdoch, e quindi all’apparato fondante del populismo Maga, cioè Fox News. Forse perché Vance è troppo colto, un romanziere, un quasi intellettuale che fa finta di essere un campagnolo.

 

Dal suo libro, “Elegia americana”, venne anche tratto un film da Ron Howard. O forse perché fino a pochi anni fa, prima di pensare a una carriera nel Partito repubblicano, Vance paragonava Trump a Hitler, o diceva cose come: “Trump non lo sopporto, penso che sia dannoso, penso che stia portando la classe lavoratrice bianca verso l’oscurità”. Ora il 39enne afferma: “Trump è il miglior presidente della mia vita, e ha mostrato come nessun altro la corruzione di questo paese”. A causa della sua giravolta e delle vecchie frasi critiche, quando Vance ha cercato l’aiuto del popolo Maga, Trump lo ha umiliato in pubblico, per poi aiutarlo a diventare senatore. Per portare avanti la sua candidatura Vance è riuscito in primavera a organizzare alcuni importantissimi eventi di raccolta fondi nella Silicon Valley, un reame tendenzialmente progressista, e a far entrare diversi milioni nelle tasche di Trump. Da parte sua Vance ha anche l’appoggio e l’amicizia del figlio dell’ex presidente, Donald Jr., attivissimo nel difendere il padre. Alcuni hanno paura che l’ambizioso Vance possa rubare il palcoscenico alla primadonna Trump. 

 
Altro volto molto presente nel circolo trumpiano è quello del governatore del North Dakota Doug Burgum, che aveva provato a sfidare Trump alle primarie di partito, il primo a mollare e a salire sul suo carro. A differenza di Vance ha più esperienza di governo e ha portato avanti campagne antiabortiste nel suo stato. Ha detto che tutte le speculazioni sulla vicepresidenza vengono fatte dalla stampa per fare confusione, e che in realtà i responsabili della campagna “sono concentrati sui temi, non sui nomi”. A Trump piacciono gli imprenditori di successo e Burgum ha venduto il suo software a Microsoft per oltre un miliardo di dollari. E poi, non brillando molto di luce propria, Trump è tranquillo che Burgum non gli ruberebbe la scena. 

 
Con ancora più esperienza, ma con un deciso passato antitrumpiano, c’è poi Marco Rubio, senatore ispanico della Florida, già candidato contro Trump alla sua prima tornata elettorale. Il problema di Rubio sarebbe che per regolamento presidente e vicepresidente non possono essere residenti nello stesso stato, e Trump ha lasciato New York per Mar-a-Lago, diventando cittadino del Sunshine State. Rubio potrebbe attirare il voto degli ispanici, che sempre di più si spostano a destra da quando il Partito democratico si è troppo spesso concentrato su questioni di gender. Trump aveva addirittura pensato a lui, nel 2016, come segretario di stato. 

 

Vance, Burgum e Rubio sono considerati i contendenti principali in questo  “Apprentice” elettorale. Ma non sono gli unici. Non pochi gli afroamericani: il senatore della Carolina del Sud Tim Scott, l’ex membro del gabinetto trumpiano Ben Carson, il giovane deputato di destra Byron Donalds. In queste elezioni il Partito repubblicano cerca di rubare parte dell’elettorato nero ai democratici, e uno di questi tre potrebbe aiutare Trump nella missione, oltre a fare da sponda per gli attacchi che gli vengono rivolti sul razzismo. Scott, unico senatore nero repubblicano, politico conservatore quasi vecchio stampo, si è fatto valere nelle primarie prima di appoggiare Trump e diventare il suo fan numero uno, aiutandolo a far perdere voti a Nikki Haley, anche lei della Carolina del sud. Scott, uomo di fede, potrebbe aiutare Trump anche con il voto evangelico. Carson, neurochirurgo con varie campagne fallimentari nel curriculum, dalla sua ha una totale fedeltà al capo, cosa molto apprezzata da Trump, oltre ad avere anche lui la carta della fede – ma ha una conoscenza limitatissima sulla politica estera. L’ultimo del trio, Donalds, stella della nuova ondata di deputati populisti, è membro del Freedom caucus che ha cacciato lo scorso anno lo speaker Kevin McCarthy (tanto che si parlava di lui come sostituto), sarebbe un segnale che il partito va ancora più a destra.

 

Tra i bianchi, un'altra stella recente del partito di cui si vocifera come VP è il senatore dell’Arkansas e veterano Tom Cotton, che era stato già considerato per il gabinetto presidenziale. Il suo neo: ha votato per certificare il voto per Joe Biden nel 2020. Inoltre, è più lontano alla politica America First del mondo Maga e più vicino ai falchi neo-con della vecchia guardia. Come Nikki Haley, Cotton dice che Biden non fa abbastanza per aiutare l’Ucraina contro Putin – e anche di Haley, l’ultima forma di resistenza al trumpismo nelle primarie, si fa il nome. Sarebbe un modo per prendersi i suoi voti che, anche una volta mollata la gara, lei ha continuato a ottenere nelle primarie. Tra le donne prese in considerazione c’è anche la deputata Elise Stefanik. Ex bushiana, la 39enne è diventata nota quando ha fatto dimettere le presidenti delle università Ivy League per la gestione dell’antisemitismo nei campus. A Trump piace, e anche a chi vorrebbe provare un ticket presidenziale multigender, che faccia così innervosire i dem, come aveva fatto John McCain con Sarah Palin. Escono poi fuori nomi meno papabili, ma comunque da considerare viste le incognite che circondano sempre Trumpland. Una è Sarah Huckabee Sanders, che conosce bene sia la West Wing che gli equilibri del partito, anche perché suo padre era un candidato presidenziale. Bisogna vedere se Trump le perdonerà di averci messo un anno a dichiarare il suo sostegno per lui alle ultime primarie. E poi Bill Hagerty, che piace a Trump per il suo look austero da film di Frank Capra, e che ha aiutato in passato Bush e Mitt Romney con le finanze elettorali, e anche Trump nella campagna del 2016 per il Tennessee, stato di cui ora è senatore.

  
Vista l’imprevedibilità di The Donald il candidato potrebbe essere chiunque, bisogna solo vedere a chi darà ascolto, o se farà di testa propria. Per esempio, lo stratega dell’alt right Steve Bannon, che appena finito di registrare il suo podcast lunedì è stato portato in carcere, gli ha consigliato la moglie del giudice della Sorte suprema Samuel Alito, Martha, perché ha appeso fuori di casa le stesse bandiere dei rivoltosi del 6 gennaio. 

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