Per risollevare il calcio italiano non sarebbe male prendere spunto dalla Francia

Euro 2020 a parte, in dieci anni nulla è cambiato: siamo fermi a Brasile 2014. Eppure vinciamo le competizioni giovanili, ma senza investire in quegli stessi ragazzi presenti in rosa

Ripartire dai vivai, finanziare le scuole calcio, studiare il modo per avere meno stranieri nei campionati professionistici, avere pazienza con i giovani, dare più spazio alle Nazionali, andare a cercare i talenti a Pozzuoli e a Bassano del Grappa, riportare il calcio negli oratori e in strada. Programmi e punti all’ordine del giorno che hanno occupato pagine di giornali e trasmissioni televisive nei minuti che hanno seguìto l’eliminazione dell’Italia agli Europei 2024 in Germania contro la Svizzera (che comunque, tre anni fa, mandò a casa la Francia di Mbappè, non Gibilterra).

Peccato, però, che siano esattamente le stesse analisi e le medesime promesse che si sentirono il 24 giugno del 2014, quando l’Italia fu eliminata dal suo ultimo Mondiale, dopo due 0-1 consecutivi contro Costa Rica e Uruguay. Allora si dimisero sia il presidente della Figc, Giancarlo Abete, sia il ct Cesare Prandelli. E dopo la sfilza di proclami, non ci qualificammo né al Mondiale russo né a quello qatarino (fatti fuori da Svezia e Macedonia del nord). Stavolta, dopo un’altra eliminazione mondiale, Gravina assicura che lui di dimettersi non ha alcuna intenzione (le elezioni si terranno il prossimo 4 novembre) e che le colpe sono soprattutto degli “altri”: le leghe che creano ostacoli alle sue riforme, la politica che nottetempo infila emendamenti al decreto “Crescita”, il mondo calcistico che ovunque progredisce.

Gravina e Spalletti rimangono dove sono perché “il progetto” è a medio-lungo termine e si spera di agguantare la qualificazione ai Mondiali del 2026. Interrogato sui contorni di tale progetto, il presidente della Figc ha spiegato che si sta organizzando una specie di politburo con i dirigenti delle squadre di club per valutare i progressi dei calciatori selezionabili; un modo per raccordare l’attività dei club alla Nazionale. Basterà? Improbabile. Anche perché il problema è la ridotta platea dei convocabili.



Troppi stranieri, si dice, e quindi paghiamo dazio. Ma in Inghilterra di stranieri ce ne sono eccome, eppure le riserve della squadra allenata da Southgate sarebbero titolari nell’Italia spallettiana. Altri, nel profluvio di commenti del giorno dopo hanno detto, viceversa, che il problema è la mancata integrazione degli italiani di seconda o terza generazione: senza di loro, siamo peggio della Svizzera. Anche qui, però, i conti non tornano visto che tre anni fa (non trent’anni fa) vincevamo a Wembley con una Nazionale in cui l’unico “oriundo” titolare era Jorginho.


In realtà i talenti in Italia ci sono, come dimostrano i successi delle Nazionali giovanili. L’ultimo, in ordine di tempo, quello dell’Under 17 (3-0 al Portogallo che i vivai li coltiva, e bene, da sempre). Prima, un anno fa, con l’Under 20, il secondo posto ai Mondiali in Argentina. Il problema è che poi questi ragazzi scompaiono una volta tornati in patria. Alcuni finiscono nelle rispettive formazioni Primavera (campionato che non serve più a nulla), altri si perdono fra panchina e tribuna delle squadre in Serie B o – i più fortunati – in A, senza scendere quasi mai in campo. Gravina, nella fluviale conferenza stampa post eliminazione tedesca, ha fatto intendere che ogni idea di valorizzare questi campioncini è frustrata dagli interessi delle leghe (la Lega Pro guarda sovente con insofferenza le seconde squadre, la B ha pubblicato un comunicato in cui teme che questa “novità” – che in Spagna esiste da anni – possa abbassare la qualità della competizione nel caso tali formazioni fossero promosse fra i cadetti (manco si stesse parlando della Premier league, con tutto il rispetto del caso).

Quel che è vero è che il bacino si è progressivamente ristretto: fin da piccoli, nelle scuole calcio, si punta a vincere subito, con genitori a sostenere a bordocampo i figli di sette, otto, nove anni, ritenendoli i nuovi Messi. E spingendo le società (e gli allenatori) a badare poco alla formazione del potenziale bravo giocatore e più al risultato immediato: meglio il ragazzino grande e grosso con ottima corsa che il mingherlino con barlumi di tecnica che prima o poi s’esprimerà. Al di là dei progetti della Figc e dei comitati club-Nazionale, servirebbe un serio discorso su che cosa si voglia fare del calcio italiano. Un po’ come si fece in Francia dopo la doppia mancata qualificazione ai Mondiali del 1990 e del 1994. Lì non si rinfacciarono colpe a vicenda, ma si diedero da fare. E nel ’98 vinsero la Coppa del mondo a Saint-Denis. Inaugurando un’èra d’oro del calcio francese che continua ancora oggi, un quarto di secolo dopo. Ogni tanto, guardare fuori dai patri confini, è buona cosa.

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