L’Iran al ballottaggio. Tra sospetti e sfiducia per ora vince l’astensionismo

In Iran l’affluenza diminuisce ogni volta che i cittadini sono chiamati alle urne. Questa volta è stata del trentanove per centro, soltanto dieci anni fa era attorno all’ottanta per cento. Alle elezioni presidenziali di venerdì sono andati a votare ventiquattro milioni di persone su circa sessanta milioni di aventi diritto, così è stato battuto il record negativo delle presidenziali del 2021 – quelle vinte da Ebrahim Raisi, l’ex presidente morto un mese fa nello schianto con l’elicottero – che erano state le meno partecipate della storia della Repubblica islamica fino a quel momento. Masoud Pezeshkian, il candidato mogio del fronte riformista, è arrivato primo con un milione di voti in più di Saeed Jalili, il più falco tra i nomi che si potevano scegliere sulla scheda elettorale.

  

Per capirci, la portavoce della campagna elettorale di Jalili, Maryam Godarzi, ha detto: “Se una donna è libera di non mettere l’hijab (il velo), allora anche l’uomo che viene provocato da lei è libero di aggredirla. Un uomo che non ha una reazione di testa e fisica quando vede una donna senza velo è malato e dovrebbe consultare un medico”. Una frase che in un paese dove decine di migliaia di donne non si coprono più la testa suona come una rinnovata dichiarazione di guerra.
Un milione di voti dei ventiquattro totali sono nulli: sono di persone che si sentivano costrette a farsi vedere in coda ai seggi, magari perché sono dipendenti pubblici, ma che poi non hanno espresso nessuna preferenza perché non credono di poter cambiare il sistema nelle urne oppure perché non si fidano di nessuno degli schieramenti politici. Le donne e i candidati che chiedevano un cambiamento radicale – come la scienziata ed ex deputata Hamideh Zarabadi, che vuole liberare tutti i detenuti politici, dice ai pasdaran di tornarsene nelle loro basi militari, vuole il dialogo con l’occidente e più libertà per i giornali e i giornalisti iraniani – non sono stati ammessi alla corsa. Nella Repubblica islamica tutte le candidature sono sottoposte al vaglio del Consiglio dei guardiani, che per metà viene nominato dalla Guida suprema e tiene il paese rigidamente nel solco segnato da Ali Khamenei.

Pezeshkian è un cardiochirurgo che ha fatto il parlamentare e il ministro della Sanità, appartiene alla minoranza etnica degli azeri e, dopo un incidente d’auto in cui ha perso la moglie e un figlio, ha cresciuto una bambina da solo. Dice di voler mettere l’economia del paese “in mano agli esperti” per provare a risollevarla, e al contrario del suo contendente vorrebbe negoziare con l’occidente un alleggerimento delle sanzioni. Dice anche, come molti riformisti, che la legge sul velo obbligatorio andrebbe rivista – ma sa che, anche se vincesse le elezioni, questa decisione non spetterebbe a lui. Né Pezeshkian né Jalili, che appartiene all’ala più intransigente dei conservatori, ha preso il cinquanta per cento dei voti o più, e venerdì prossimo, il 5 luglio, si terrà il secondo turno delle elezioni. C’è soltanto un precedente nella storia della Repubblica islamica ed è il ballottaggio del 2005 vinto dal falco populista Mahmoud Ahmadinejad. 

Ora Pezeshkian, per vincere, avrebbe bisogno di mobilitare un po’ di oppositori al regime e un po’ di giovani, che non votano per non legittimare il sistema. Non sarà facile perché il candidato riformista soprannominato “il dottore” è in buoni rapporti con la Guida suprema e il fatto che sia stato l’unico ammesso dello schieramento all’opposizione insospettisce i dissidenti,  gli studenti e le decine di migliaia di donne che non indossano più il velo.

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