Il barocco che ancora ammalia. Viva la diva Bartoli e le sue mille voci

Dieci giorni di appuntamenti concertistici nella città di Cremona confermano la rilevanza nazionale di uno dei più importanti festival di musica barocca

Lode alla musica antica e a chi sa interpretarla. E lode al divismo come strumento di bellezza e di emozioni. Planando da un mondo di social, eurofestival, videoclip e concertoni, è difficile pensare che un passato così remoto (note scritte quattro secoli fa) riesca a parlare ancora con toni così convincenti e seduttivi da riempire una chiesa, una sala o un teatro di ascoltatori felici e commossi. E invece può succedere in una tranquilla città della provincia lombarda. E’ successo a Cremona, che dopo Stradivari sembra riuscita a fare anche di Claudio Monteverdi il genius loci. A Cremona Monteverdi era nato, nel 1567, e per quanto l’avesse lasciata abbastanza presto prima per la corte dei Gonzaga e poi per Venezia, dov’è sepolto (e dove un analogo ardore affettivo si manifesta, forse ancora oggi, con un fiore che adorna sempre la sua tomba, nella basilica dei Frari), a Cremona questa primogenitura è bastata per dedicare da una quarantina d’anni a questa parte un festival all’inventore del melodramma, o almeno all’autore indiscusso dei primi capolavori di quest’arte fatta di musica e parola che ora è “patrimonio dell’umanità”.

Costanza e successo nel tempo hanno consentito in più al Monteverdi Festival, quando già si profilava all’orizzonte l’edizione di quest’anno, di ottenere il riconoscimento di manifestazione “di rilevanza nazionale”, con un cospicuo finanziamento statale. I quattrocento anni esatti del Combattimento di Tancredi e Clorinda – uno dei vertici espressivi della produzione monteverdiana – hanno fatto il resto per stimolare la confezione di un calendario ricco in quantità e qualità messo a punto dal direttore artistico Andrea Cigni. Dieci giorni di appuntamenti concertistici da mattina a sera, in luoghi diversi della città, seguendo una formula di “full immersion” ormai consolidata per questo genere di manifestazioni. Grandi interpreti di questo repertorio, sacro e profano: da Antonio Greco, direttore musicale principale del festival, all’Accademia Bizantina di Ottavio Dantone, al Pomo d’oro guidato da Francesco Corti. E ancora, Les Arts Florissants di William Christie, l’Europa Galante di Fabio Biondi, il Modo Antiquo di Federico Maria Sardelli. Pubblico assai partecipe e da diversi dove. Insomma, come si dice in questi casi: un successo.

Si può dire altrettanto del concerto, solo in parte monteverdiano, che domenica scorsa ha chiuso il festival? Non proprio: la parola “successo” non basterebbe per tradurre le esplosioni di entusiasmo che hanno scosso platea palchi gallerie del teatro cittadino – una piccola Scala intitolata ad Amilcare Ponchielli, altra gloria locale sia pur meno gloriosa del “divin Claudio” – di fronte all’esibizione di Cecilia Bartoli. Il che era prevedibile, s’intende, per la più celebre cantante italiana nel mondo, che però dopo oltre trent’anni di carriera e più di dieci milioni di dischi venduti, in Italia si sente ancora troppo poco. Il fenomeno si chiama divismo, nella più antica e nobile accezione. O si può sintetizzare nel fatto che il mezzosoprano romano ha reso pop il barocco, basta non fraintendersi sui mezzi: la cura, a volte la provocazione dell’immagine in fondo è limitata alle copertine dei dischi, minigonne e tacchi 12 sfoggiati con avvenenza da altre star del palcoscenico musicale pare non ricordarne indosso a lei. La diva Bartoli è tutta sostanza: skill and sensibility, bravura ed espressività, carisma e comunicativa immediata dal momento in cui si affaccia al proscenio. La tecnica, la padronanza dei mezzi vocali le consentono di affrontare (oggi forse solo con meno frequenza di ieri) i più impervi passaggi di coloratura, quelli che avevano e conservano tuttora come fin la meraviglia e che tuttavia non sono solo una pioggia di note ma sanno per esempio raccontare, nella loro declinazione drammatica, la furia della maga Melissa dall’Amadigi di Gaula di Händel. Ed è ancora la tecnica a sostenere la tenuta dei fiati, le mezze voci flautate, la paletta timbrica nelle arie più intime e dolenti, in cui però tutto questo passa come in secondo piano, a vantaggio dell’interpretazione, del fraseggio e della cura nel porgere la parola e la frase, nelle oscillazioni dinamiche, nelle sottili variazioni espressive dei da capo.

E’ così che i languori e lo struggimento (barocchi) di arie come “Lascia la spina” e “Piangerò la sorte mia” di Händel, o “Sol da te, mio dolce amore” di Vivaldi fanno breccia anche nell’ascoltatore smaliziato d’oggi. Con la stessa intimità e verità d’accenti Cecilia Bartoli ha proposto, omaggio al festival, una perla di Monteverdi, che pure non è tra i suoi autori d’elezione, e per finire si è sciolta in un brano del vescovo-musicista Agostino Steffani (barocco, ancora una volta) trascolorato in un’improvvisazione di “Summertime” di Gershwin. L’hanno accompagnata gli splendidi Musiciens du Prince di Monaco, diretti da Gianluca Capuano, un’orchestra di strumenti d’epoca che ha fondato lei stessa nel 2016. Anche per questo, lode a “Santa Cecilia”, come la venerano non segretamente i suoi più devoti ammiratori.

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