Assange, Gershkovich e il doppio standard di Amnesty

Quando ieri Julian Assange è tornato libero, dopo aver patteggiato con il Dipartimento di stato dichiarandosi colpevole per i reati relativi alla legge americana sullo spionaggio con una pena pari ai mesi già scontati da recluso in Inghilterra, tra i primi a celebrare la liberazione nel nostro paese c’è stata Amnesty Italia: “Julian Assange è libero! Questa persecuzione senza precedenti da parte degli Usa e di altri stati nei suoi confronti non sarebbe dovuta mai cominciare. Il giornalismo non è un crimine!”.

Il portavoce di Amnesty Italia, Riccardo Noury, ha immediatamente scritto articoli e rilasciato interviste per dire che Assange resta innocente: “Ha dovuto ammettere la sua colpevolezza rispetto ad alcuni di quei reati” ma in questo modo “resta il messaggio minaccioso nei confronti di chi vorrà fare ciò che ha fatto Assange”. Noury definisce il caso del fondatore di Wikileaks “una storia di persecuzione giudiziaria senza precedenti nei confronti della libertà di informazione”.

Oggi in Russia inizia il processo a porte chiuse contro Evan Gershkovich, il giornalista americano del Wall Street Journal detenuto da oltre un anno a Lefortovo, nel carcere di massima sicurezza che una volta era gestito dal Kgb e ora dall’Fsb. Amnesty non ha detto nulla. Noury neppure.

Gershkovich è stato arrestato a Ekaterinburg 15 mesi fa e rischia fino a 20 anni di carcere perché, secondo i servizi di sicurezza russi, è una “spia” che raccoglieva informazioni sull’industria militare russa per conto dell’intelligence americana. Il reporter ovviamente respinge l’accusa: stava semplicemente facendo il suo lavoro, che è quello di raccogliere informazioni, nello specifico sulla compagnia militare Wagner, ma per informare l’opinione pubblica sulla guerra e non la Cia. Ma questo da quelle parti non si può: la libertà d’informazione, che nelle democrazie occidentali è un diritto, nella Russia di Putin è un delitto.

“Evan è stato sequestrato dai servizi di sicurezza russi, falsamente accusato di essere una spia americana e gettato in prigione – ha scritto Emma Tucker, direttrice del Wsj –. Non sarà un processo come lo intendiamo noi, con presunzione di innocenza e ricerca della verità. Al contrario, si svolgerà in segreto. Nessuna prova è stata svelata. E conosciamo già la conclusione: questa falsa accusa di spionaggio porterà inevitabilmente a una falsa condanna”.

Su questa vicenda agghiacciante, Amnesty non ha scritto nulla. Ma non ieri, che era una giornata convulsa e dominata dalla conclusione del caso Assange in un modo che dà soddisfazione a entrambe le parti (agli Stati Uniti per l’ammissione dei reati, ad Assange per la fine della detenzione). Sul giornalista americano sbattuto in carcere da Putin, Amnesty non ha mai detto nulla. Né ieri né prima.

Se si fa una ricerca sul profilo X (ex Twitter) di Amnesty Italia e Amnesty International, non c’è nessun tweet su Gershkovich. Il suo caso è stato sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, ma non esiste per una ong impegnata nella difesa dei diritti umani. Stesso esito se si fa una ricerca sul profilo di Noury: alla voce “Gershkovich” zero risultati. D’altronde se Amnesty non dice nulla, che cosa può dire il suo portavoce? L’unico risultato, sul sito della ong, è una riga in un report sulla Russia: “Il 29 marzo, le autorità hanno arrestato il giornalista statunitense Evan Gershkovich per accuse discutibili di spionaggio”. Discutibili. Nient’altro.

I tweet e i comunicati di Amnesty e Noury a sostegno di Assange, invece, sono molto più perentori e si contano a decine al mese, per anni, insieme a tanti comunicati, un appello per chiedere di “Annullare le accuse contro Julian Assange”, oltre a dibattiti, iniziative, presentazioni di libri e anche l’inaugurazione di un murales dedicato all’hacker australiano. Non c’è nulla di specifico contro Gershkovich da parte di Amnesty, c’è piuttosto una generale disattenzione verso le vittime della repressione in Russia.

Prendiamo il caso di Vladimir Kara-Murza: l’allievo di Boris Nemtsov, il promotore del Magnitsky Act – la legge americana che iniziò a sanzionare gli ufficiali russi responsabili di violazioni dei diritti umani – il dissidente sopravvissuto per miracolo a due avvelenamenti, prima delle sue contestazioni alla guerra in Ucraina che gli sono costate l’arresto e, infine, la condanna per “alto tradimento” a 25 anni di carcere. Per Kara-Murza, Amnesty ha prodotto due comunicati e un tweet in tre anni. Meno di quanto fatto per Assange in un’ora.

Eppure il suo è un caso drammatico. Insieme all’altro dissidente Ilya Yashin (per lui due tweet in due anni di Amnesty Italia, zero di Noury) Kara-Murza è stato appena trasferito in un regime duro di prigione. Difficilmente, date le sue condizioni di salute precarie, ne uscirà vivo. Più probabile che faccia la fine di Alexei Navalny, morto in una colonia penale in Siberia.

Di Navalny Amnesty ne ha parlato un po’ di più, seppure poco in confronto ad Assange. E non sempre aiutandolo. Appena un mese dopo il rientro a Mosca che gli costò l’arresto, reduce dall’avvelenamento con Novichok da parte dei servizi russi, Navalny venne depennato da Amnesty come “prigioniero di coscienza” per alcune frasi xenofobe di 14 anni prima. La decisione della ong fu un assist per Putin, che la usò per violare ulteriormente i diritti di Navalny. Tanto che dopo qualche mese Amnesty si sentì in dovere di rimettere Navalny tra i “prigionieri di coscienza”.

In ogni caso, ancora oggi, il rigoroso (doppio) standard di Amnesty considera la vicenda giudiziaria di Assange “senza precedenti nei confronti della libertà di stampa”. La storia di un attivista che ammette un reato e torna libero in Australia è considerata ben più grave delle storie dei giornalisti e dei dissidenti – come Gershkovich, Kara-Murza, Yashin e Navalny – che si dichiarano innocenti, restano in carcere e, in qualche caso, ci crepano pure.

 

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