Perché Mosca sta ignorando i segnali di un rafforzamento dello Stato islamico dentro ai confini russi

Domenica sera, due gruppi di uomini armati hanno attaccato quasi in simultanea due chiese ortodosse, due sinagoghe e alcune stazioni della polizia in Daghestan, a Makhachkala, il capoluogo, e a Derbent. Le autorità russe hanno detto di aver eliminato i terroristi, sono morti quindici agenti e un numero non precisato di civili, tra cui un sacerdote che, secondo informazioni ancora non ufficiali, sarebbe stato sgozzato o decapitato. L’attacco terroristico si è chiuso con le accuse, alcune vaghe e alcune dirette, all’Ucraina e alla Nato. Il governatore del Daghestan, Sergei Melikov, ha detto che gli attentati sono il segnale che la guerra è arrivata in casa e ha affermato di sapere chi sono i responsabili. Come il 22 marzo, quando un commando dello Stato islamico fece irruzione nella sala concerti Crocus, alle porte di Mosca, il Cremlino inventa un nemico fantasma e ignora le minacce serie. Sembra che il Cremlino sia pronto a usare l’attacco in Daghestan per stimolare l’odio nei confronti dell’Ucraina e giustificare la guerra: i terroristi del Crocus vennero catturati e i servizi di sicurezza russi dissero  di aver trovato le prove del loro legame con Kyiv. 

Il Cremlino ha un problema con il terrorismo che continua a negare, preso dall’aggressione contro Kyiv che consuma risorse, denaro e intelligence, non presta attenzione alla minaccia dello Stato islamico che sta dando diversi segnali del suo ritorno in Russia e basta metterli tutti lungo una linea temporale per capire cosa sta succedendo. A inizio marzo, Mosca ha annunciato di aver eliminato un gruppo di terroristi dello Stato islamico che era pronto a operare in Inguscezia, una repubblica russa che confina con la Cecenia. Meno di una settimana dopo, i servizi russi dissero di aver eliminato due sospetti a Kaluga che pianificavano l’attacco contro una sinagoga; a fine marzo Mosca venne sconvolta dall’attacco al Crocus dove morirono centoquarantacinque persone e qualche mese dopo, a metà giugno, sei detenuti del carcere di Rostov sul Don, nella parte occidentale della Russia meridionale, distrussero la loro cella e presero in ostaggio le guardie carcerarie, minacciando di liberarle solo se avessero ottenuto in cambio un’auto per fuggire. Vennero eliminati, facevano parte dello Stato islamico e con i pochi mezzi a disposizione erano riusciti a organizzare un piano dettagliato. Infine l’attacco in Daghestan, efficace, plateale, ma ancora senza rivendicazione. 

Il Daghestan è una repubblica a maggioranza musulmana e nel 2015 alcuni suoi cittadini partirono per unirsi allo Stato islamico in Siria e in Iraq. Lo stato russo non intervenne, mentre prometteva di aiutare il dittatore siriano Bashar el Assad in Siria a combattere contro lo Stato islamico fingeva che non ci fosse una parte consistente di miliziani che parlava fluentemente in russo, aveva anche il passaporto della Federazione russa e rivestiva incarichi di prestigio dentro all’organizzazione, oltre a gestire missioni energiche e disperate come il tentativo di mantenere il controllo di Mosul, in Iraq, nel 2017. Oggi il Daghestan è  tra i luoghi più interessati dalla mobilitazione per l’esercito, come tutte le zone più periferiche e meno ricche, anche la repubblica del Caucaso settentrionale, che proprio come l’Inguscezia è confinante con la Cecenia,  serve da riserva di uomini da portare in Ucraina, quindi da bacino di malcontento in cui per gli islamisti è più facile reclutare. 

La rivendicazione ancora non c’è, forse le agenzie dello Stato islamico stanno cercando le immagini a effetto e sufficientemente sanguinose con cui pubblicarla, per il momento c’è soltanto il messaggio della branca russa dell’agenzia di propaganda al Azaim, che non ha attribuito l’attacco allo Stato islamico del Khorasan, di cui gestisce la propaganda, ma ha lodato l’attacco contro gli ebrei e i cristiani. Putin aveva iniziato la sua carriera presidenziale con parole forti, urlate e volgari contro i terroristi della Cecenia, oggi ignora le minacce e gli attentati, prova a rigirarle contro Kyiv, con un gioco delle colpe che fa danno soltanto al suo paese.
 

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