Orbán show: “No a Ecr, no a questa Commissione”. E Meloni trattiene il fiato

Primo presagio: il bilaterale è terminato, ma c’è un problema con la traduttrice ungherese. “Ao’, è saltata la corrente di sotto”. Lo staff di Palazzo Chigi elettrico,  piccola tensione nella sala dei Galeoni dove tutti attendono Giorgia Meloni e soprattutto Viktor Orbán per le consuete dichiarazioni protocollari. E’ un segno del destino perché poi quando il primo ministro di Budapest parlerà non si terrà un cecio in bocca. Poco diplomatico, molto orbaniano: sulla collocazione del suo partito fuori da Ecr, ma anche  sulla posizione dell’Ungheria riguardo la partita dei top jobs. Un piccolo show, per la grammatica protocollare. Quando lo zio Viktor termina di parlare, Meloni sembra tirare un sospiro di sollievo. 

Il tour di Orbán rientra nella guida ungherese del Consiglio europeo che scatterà dal primo luglio. E’ stato a Berlino, oggi è a Roma, domani a sarà a Parigi da Macron. Germania e Francia, i paesi che volevano apparecchiarsi le nomine che contano a Bruxelles senza l’Italia. Trattativa che ora sembra riaperta, almeno per quanto riguarda la nomina di un vicecommissario esecutivo (forse) con delega di peso (magari al bilancio e al Pnrr).

Non è un caso che dalla stanza dell’incontro esca prima di tutti Raffaele Fitto, indiziato per il nuovo ruolo brussellese. Dimagrito (come diversi ministri del governo Meloni, tutti di FdI) e sempre cauto. I cronisti lo salutano con un “ciao, commissario”, lui, curiale, risponde “fate i bravi”. E se ne va. Resta da ascoltare la coppia Meloni-Orbán. La premier, si sa, si è presa la briga di essere una sorta di elastico fra la democrazia illiberale ungherese e il resto d’Europa. In mezzo a loro c’è la guerra in Ucraina e il rapporto con la Russia di Putin. “Sappiamo molto bene che le nostre posizioni non sono sempre coincidenti. Proprio per questo voglio dire che apprezzo molto la posizione che l’Ungheria ha mostrato finora sia in ambito di Unione europea sia in ambito Nato, consentendo agli altri stati membri e agli alleati di assumere decisioni molto importanti anche quando non era completamente d’accordo”, dice la premier italiana. Assicurando di aver parlato con il collega magiaro “dell’indiscusso sostegno” alla sovranità, all’indipendenza, all’integrità territoriale dell’Ucraina soprattutto in chiave ricostruzione.

A nessuno sfugge il veto che, con costanza, Budapest pone quando ci sono in ballo nuove sanzioni a Mosca. C’è da immaginare che Meloni si sia rifatta sotto, cercando una mediazione, che sia anche all’insegna “della politica della sedia vuota”. Come accaduto in passato. Il primo ministro ungherese nel dubbio non ne parla, mentre Meloni concorda con lui su quanto sia centrale il tema natalità nel vecchio continente, motivo per il quale partecipò anche a un forum a Budapest nei mesi scorsi. E comunque Orbán, che andava d’amore e d’accordo ai tempi del Ppe con Silvio Berlusconi e che ha conservato anche un rapporto con Matteo Salvini, dimostra feeling pure con la leader di Fratelli d’Italia. Solo che quando parla rompe il muro della noia, per la gioia delle coronarie della comunicazione del governo. “Vi dico di cosa non abbiamo parlato”, esordisce. Silenzio, la premier lo fissa. “Non abbiamo parlato del mio ingresso in Ecr, perché l’argomento è stato già chiuso  lunedì a Bruxelles: non possiamo fare parte di una famiglia politica dove c’è un partito rumeno che è anti ungherese. Ma ci impegniamo a rafforzare i partiti di destra europei anche se non siamo nello stesso gruppo”. Poi ecco la stoccata sulla commissione: “Non è più neutrale, come una volta, non è più guardiana dei trattati”. Ecco perché annuncia che l’Ungheria non potrà appoggiare il patto sui top jobs. Meloni annuisce, sperando che tutto finisca il prima possibile. La realpolitik di Palazzo Chigi impone che si dica di sì stasera e che intanto, in cambio del bis a Ursula, si contratti per una buona posizione da commissario. A proposito, dov’è finito Fitto?
 

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