Da profanatore della 10 ad allenatore pronto a vincere. La strana parabola di Thiago Motta

Agli Europei del 2016 il nuovo allenatore della Juvntus fu criticato perché giudicato indegno di vestire la maglia numero 10. In otto anni molte cose sono cambiate A partire dal fatto che la creatività l’ha portata in panchina

Luciano Spalletti per esorcizzare la questione ha pensato di creare una giornata ad hoc. “I Fantastici 5” a Coverciano per portare la loro aurea magica. Cinque storici numeri 10 della Nazionale, Rivera, Antognoni, Baggio, Del Piero e Totti. “Nel calcio moderno, relazionale, dove non ci sono più ruoli fissi, è bene avere la loro qualità. Ora ci passano un po’ tutti in quella zona di campo, da Calafiori a Cambiaso”. Insomma, non importa che non ci sia più il fantasista di una volta, conta la fluidità delle posizioni. Lo ricordava anche la maglietta indossata: “Siamo tutti 10”. Una sottolineatura tattica, ma anche una mossa per placare sul nascere la possibile polemica sulla maglia più ambita, data senza clamore a Pellegrini.

Nel 2016 Antonio Conte non pensò a uno stratagemma simile per tutelare il povero Thiago Motta, al centro di un bombardamento mediatico per aver osato “profanare” la maglia dei futuri ospiti di Spalletti. Nel rigido 3-5-2 dell’attuale allenatore del Napoli la dicitura “tutti 10” avrebbe stonato. Non ce n’era nemmeno uno, troppo acerbi Insigne e Bernardeschi. Il numero fu affidato al più esperto del gruppo, al più titolato, al perno di uno dei club migliori d’Europa, il Paris Saint-Germain, al giocatore forse più tecnico di un rosa ricordata per la coppia d’attacco Eder-Pellè. La pensava così anche il suo compagno di squadra Daniele De Rossi, con il quale si giocava il posto da titolare: “Chi lo ridicolizza venga a farsi due palleggi con lui e poi si sciacqui la bocca, nessuno merita la 10 più di lui”, disse in conferenza prima dell’Europeo in Francia.

La polemica era nata sul web, alimentata da qualche pagina social con il difetto di trasformare un tormentone buono per i meme in un argomento di tendenza per cui valesse la pena affannarsi. Giornali e testate varie rilanciarono la diatriba. Motta fu considerato un capro-espiatorio preventivo, il simbolo del declino del calcio italiano. Per giunta oriundo, quindi nemmeno così italiano. Poco importavano le Champions vinte con Barcellona e Inter. Motta era troppo lento, nonostante avesse rilanciato la sua carriera nel Genoa dai ritmi intensi di Gasperini. Motta non offriva filtro davanti la difesa, poco importa che fosse stato un equilibratore per Mourinho, Ranieri e Ancelotti. Motta era un regista, ma senza le illuminazioni verticali di Pirlo, solo troppi tocchi semplici.

Quei passaggi sono però diventati il suo marchio di fabbrica in altra veste. Due Europei dopo Motta è uno dei giovani allenatori più brillanti, arrivato con il Bologna in Champions e scelto dalla Juventus per tornare a vincere e offrire una proposta di gioco accattivante, al passo coi tempi. Da fardello in campo a genio in panchina, ma sul quale scetticismo e pregiudizi aleggiano ancora intorno. Saprà reggere la pressione del salto in una big? Saprà convincere quella parte di tifo che ha aderito in maniera quasi messianica al credo dell’ex Allegri, determinato anche nella comunicazione a creare una continua contrapposizione tra estetica e risultato?

Nel frattempo ha scritto la prefazione di “Numeri 10, incontri con i grandi del calcio”, libro dello juventino doc Walter Veltroni. Di nuovo quel numero: “È idea comune ormai considerare che il calcio di oggi sia un nemico della loro creatività. Non sono d’accordo. Ogni allenatore aspira a costruire una squadra che riproduca collettivamente le stesse emozioni, gli stessi sogni, le stesse passioni che un numero 10 è in grado di trasmettere, toccando il cuore dei tifosi”. Per Spalletti sono tutti 10, per Motta una squadra deve essere un 10. Non è forse la stessa cosa?

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