Brando confidential. Ricordato come folle violento, nell’autobiografia mostra il suo vero volto

Evasivo, laconico, sognante. E anche dolente. Marlon Brando si mette a nudo come gli riesce: “Non me ne importa nulla di ciò che la gente pensa di me”. Ma non risponde a tutte le domande (meno male)

Recitare è uno strano lavoro per un uomo adulto, aveva detto Marlon Brando al giovane Johnny Depp che lo venerava come mentore e guida spirituale, e aveva aggiunto che in televisione non si parla mai dei propri figli. La vita privata è il bene più prezioso da proteggere in un mondo in cui tutti mentono. Il grande attore, che il 3 aprile avrebbe compiuto cento anni, scrive nella sua autobiografia “Le canzoni che mi insegnava mia madre” uscito da poco per la Nave di Teseo, che la recitazione è la meno misteriosa delle arti perché tutti recitano – il bambino che vuole l’attenzione della madre, marito e moglie nei rituali quotidiani, i politici – e che in realtà “la maggior parte degli attori offre la sua migliore interpretazione a cinepresa spenta”. E, qualche pagina dopo, che ha “avuto molti problemi, ma anche molta fortuna; si può dire che, in un certo qual modo, la mia vita sia stata protetta da un incantesimo”. Evasivo, laconico e sognante lo è sempre stato sul set dei suoi film – una quarantina – e inafferrabile lo è anche quando decide, nel 1994, di raccontare la sua vita. “In questa autoanalisi”, scrive nell’appassionata prefazione il regista Giulio Base – che dirigerà il prossimo Torino Film Festival e dedicherà a Brando una retrospettiva di 24 titoli – “evita di celebrarsi come un divo e affronta sinceramente la sua umanità imperfetta, che lo rende somigliante a ciascuno di noi”.

“Evita di celebrarsi come un divo e affronta sinceramente la sua umanità imperfetta, che lo rende somigliante a ciascuno di noi”.



Come molte autobiografie di star planetarie dalle vite piene di luci e ombre la lettura di queste quasi cinquecento pagine è un corpo a corpo con il protagonista, passato alla storia come l’attore più bello e capace della storia del cinema, colui che ha rivoluzionato per sempre la recitazione. Prima di Brando le star di Hollywood erano semi divinità dal portamento sempre perfetto e dalla recitazione adamantina: l’entrata in scena, nel 1947, dell’insensibile e brutale Stanley Kowalski – il personaggio interpretato da Brando in “Un tram che si chiama desiderio”, scritto da Tennessee Williams e diretto da Elia Kazan – scardina per la prima volta quel concetto di attore-divo e lo rende stranamente vero, e dunque simile a noi. A soli ventitré anni in scena c’era uno “con il fisico da pugile e la faccia da bambino che ti veniva voglia di abbracciare”, scrive Giulio Base, “con una sensualità a tratti femminea mista a una forte virilità che sprizzava da ogni poro”. Quando, nel 1954, Brando si presenta sul grande schermo a capo della gang di motociclisti Black Rebels ne “Il Selvaggio”, spiazza tutti: guida una moto Triumph e indossa il giubbotto di pelle nera con il suo nome “Johnny” inciso sul petto ma ha modi quasi pacati, anche quando si scontra con lo sceriffo del paese. Quando entra nel bar la cameriera, figlia dello sceriffo, è tesa e impaurita nel trovarsi da sola di fronte al capo della gang e lui, come se niente fosse, fischietta e canticchia una dolce melodia. Urla “nessuno può dirmi che cosa devo fare!” ma poi prende le botte dal suo rivale Chino interpretato da uno spavaldo Lee Marvin. Non si era mai visto un ribelle così sensuale come il suo Johnny, tanto che quell’interpretazione diventa immediatamente un’icona: “Volevo far capire che la dolcezza e la tolleranza rappresentano l’unico modo per vincere le forze della distruzione sociale”.



Condensare una vita intera in una biografia è compito arduo di per sé. Scrivere un’autobiografia, anche se con l’aiuto di un bravissimo ghostwriter, è forse la sfida più difficile in assoluto. Soprattutto se a farlo è l’attore più famoso e chiacchierato del mondo, che lungo tutto l’arco della sua carriera ha circondato la sua privacy di filo spinato per proteggere sé e i suoi famigliari (tre mogli e quindici figli): come scegliere le esperienze, nel bene o nel male, che hanno segnato la nostra vita? Quegli eventi che hanno fatto crescere ed evolvere il nostro modo di essere e di pensare? Quali lieti ricordi e quali traumi superati che ci hanno fatto diventare la persona migliore che siamo oggi? Vuotare il sacco su tutto o sorvolare su certi spinosi ricordi ripescati dal fondo di un pozzo oscuro? La verità ci rende folli, diceva qualcuno. Qualcun altro aveva provato a scambiare la verità con amore, danaro e fama, e non aveva fatto una buona fine. Nel suo libro Marlon Brando racconta senza pudore che lo scrive per soldi – tantissimi, milioni di dollari, sono passati dalle sue mani e pochissimi sono restati nelle sue tasche – e lo fa a modo suo: evasivo, laconico, sognante. E anche dolente. Esattamente come Bob Dylan, che nella sua autobiografia “Chronicles, Volume 1” (Feltrinelli, 2004) liquida con una riga molto ambigua il famoso incidente in moto del 1966 su cui i fan hanno perfino ipotizzato un rapimento da parte degli alieni, Brando si mette a nudo come gli riesce, come può, spiazzando sempre e comunque chi gli sta di fronte: “Questo libro, uno sfogo di sentimenti a lungo trattenuti, rappresenta la mia dichiarazione di libertà. Finalmente mi sento libero e non me ne importa nulla di ciò che la gente pensa di me. A settant’anni mi diverto più di quanto abbia mai fatto in vita mia.”

Racconta delle marce con Martin Luther King e con il sindaco Lindsey, ma dedica solo poche pagine ai capolavori a cui ha dato corpo e volto



Si dilunga sull’infanzia abusata e derelitta, sulla violenza del padre che arriva a odiare e sull’alcolismo dell’amatissima madre, sull’impegno sociale e sulla delusione della politica che abbandona le persone (celebre è un incontro-scontro con Jfk). Racconta della marcia con Martin Luther King a Washington il giorno di “I have a dream” e con il sindaco Lindsey ad Harlem, e delle battaglie per i diritti di afroamericani, ebrei e nativi americani. Ma poi dedica solo poche pagine ai capolavori immortali a cui ha dato corpo e volto (“Ultimo Tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci, “Apocalypse Now” e “Il Padrino” di Francis Ford Coppola) su cui critici e fan di tutto il mondo hanno scritto e versato lacrime. Come se a contare di più, per lui, fossero gli altri che se stesso. E, nonostante tutto, è passato alla storia per essere un folle, maschilista, violento, ossessionato dal sesso, bipolare, addirittura sadomasochista, ha scritto qualcuno, in una relazione omosessuale segreta con James Dean totalmente schiavizzato al suo potere.



Trent’anni prima, nel 1956, il diabolico Truman Capote ci aveva provato a intervistarlo andandolo a trovare in Giappone sul set di “Sayonara”, e l’intervista, diventata poi il libretto “Il Duca nel suo dominio” (Mondadori, 1999), è un piccolo gioiello di scrittura raffinata e furbizia indagatrice: “Quel piccolo bastardo ha passato la metà della serata a raccontarmi tutti i suoi problemi”, dichiara Brando in seguito, “ho immaginato che il meno che potessi fare fosse raccontargliene un po’ dei miei”. Anche in quel caso, all’apice della sua carriera, Marlon non risponde direttamente alle domande ma ci gira intorno, temporeggia, sospira, borbotta. Si stiracchia sulla stuoia giapponese nella camera d’hotel dove invita Capote, si appisola, si risveglia, racconta delle sue sedute di psicoanalisi, della paura di perdere la creatività, si assopisce nuovamente. Dice e non dice, e nel non dire nulla dice tutto.



“Le persone mentono, costantemente, ogni giorno, non dicendo le cose che pensano o dicendo quello che in realtà non pensano oppure fingendo di provare ciò che non provano”, aveva borbottato con la sua voce nasale e cantilenante in tempi non sospetti in tv al Dick Cavett Show nel 1973.



Marlon detto Bud nasce nel 1924 a Omaha, Nebraska, da una famiglia middle-class il cui avo paterno di origini tedesche aveva americanizzato il suo cognome, Brandau. I genitori sono in perenne litigio – il padre violento e frequentatore di bordelli, la madre alcolizzata cronica – presto si separano. Il padre lo spedisce alla Shattuck Military Academy nel Minnesota convinto che un po’ di disciplina gli avrebbe fatto bene e il giovane ricambia con l’esatto contrario: odia le regole e l’autorità e si fa addirittura espellere. A diciannove anni, nel ‘43, va a trovare le sorelle che intanto si sono trasferite a New York e scopre, nell’ordine, la città più bella del mondo, l’amicizia con lo scrittore afroamericano James Baldwin e il ballo forsennato sulle canzoni caraibiche di Tito Puente. Si iscrive in una scuola di danza moderna perché vuole fare il ballerino ma poi comincia per caso i corsi di recitazione Dramatic Workshop della New School e scopre che è quello che gli piace veramente. Sono molto toccanti le tante lettere che scrive ai genitori in cui racconta i primi timidi successi nel recitare Pirandello e Molière e gli incontri con le prime ragazze: “Non capisco la vita, ma comunque sto facendo di tutto per viverla il più possibile. Voi siete davvero buoni genitori e mi siete di grande conforto. Con tanto affetto, Bud”. All’improvviso, però, nell’universo del giovane Marlon appare un sole chiamato Stella Adler, l’attrice degli anni 30 che aveva studiato in Europa con Kostantin Stanislavskij del Teatro d’Arte di Mosca – quello del famoso “metodo” di cui tanti cominciavano a parlare – e per un attore alle prime armi è la rivelazione: “Praticamente tutta la recitazione dei film moderni deriva dai suoi insegnamenti, ed è riuscita ad avere un effetto straordinario sulla cultura del suo tempo”, scrive Brando, “aveva una dote particolare per insegnare alla gente a esaminare se stessa, permettendo così di utilizzare le proprie emozioni e tirar fuori la propria sensibilità nascosta”. Poche righe dopo è curioso il primo affondo contro l’altro grande attore e insegnante del “metodo”, Lee Strasberg – anch’esso ebreo come la Adler – che, curiosa coincidenza, interpreterà la parte del boss ebreo Hyman Roth nel “Padrino Parte 2” e ordinerà la morte di Michael/Al Pacino, figlio di Don Vito Corleone/Brando.

La relazione con Marilyn Monroe di cui si dice convinto che sia stata uccisa, la nativa Sacheen Piccola Piuma che ritira la statuetta del suo Oscar



La biografia è ghiottissima di tanti aneddoti spassosi e divertenti come la parte di Kowalski ottenuta dopo aver riparato il cesso di Tennessee Williams o la relazione segreta con Marilyn Monroe di cui si dice convinto che sia stata uccisa; le liti feroci con Gillo Pontecorvo sul set di “Queimada” nel ‘68 per equiparare il cibo e la paga anche agli attori di colore e il caos provocato dalla sua decisione di mandare la nativa Sacheen Piccola Piuma a ritirare la statuetta del suo Oscar per “Il Padrino”.


“Durante gli anni Sessanta e Settanta accaddero talmente tante cose che me ne è rimasto solo un ricordo molto confuso”, scrive a un certo punto, e allude a quella che lo scrittore newyorkese Jonathan Lethem definisce “la fine di una particolare specie di rischio nell’arte di recitare, il rischio del fallimento” nel suo saggio “Le crepe di Marlon Brando” (Bompiani, 2013).



Tre di questi ricordi confusi sono anche i tre film per cui la sua interpretazione magistrale ha cambiato le sorti della storia del cinema e le carriere dei registi Bernardo Bertolucci e Francis Ford Coppola. Per “Il Padrino”, del 1972, Coppola gli dà carta bianca nel creare l’identità di Don Vito Corleone, e, come è noto, nonostante gli Studios non lo volevano categoricamente, la sua recitazione di sottrazione ha reso eterno un personaggio immorale e indifendibile. Dedica poche pagine a Bertolucci che, durante le riprese di “Ultimo tango a Parigi” nel 1972, gli chiede di interpretare se stesso e di improvvisare i dialoghi. Brando scrive che è contrario ad avere rapporti sessuali con l’attrice Maria Schneider per dare maggiore autenticità al film, e decidono di simulare tutto, compresa la famosa e chiacchierata scena di sodomia con il burro. Ma è sempre stato più comodo descrivere l’attore come un pazzo, uno che ha perso la ragione, come uno dei tanti personaggi che ha interpretato. Nell’estate del 1976 si trasferisce nelle Filippine per girare “Apocalypse Now”, ingrassato e stanco, senza più quel fascino che l’aveva sempre accompagnato. Lethem lo descrive come “le macerie dell’uomo più bello che si fosse mai visto”, e sul set ne succedono di tutti i colori: le 12 settimane di riprese si trasformano in 68, un tifone colpisce il set e li costringe a tre mesi di pausa, l’attore Martin Sheen ha un attacco di cuore e Coppola si indebita così tanto da ipotecare le sue proprietà e pensare al suicidio. Per di più la sceneggiatura tradisce di molto il senso del racconto originale “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad, e Marlon convince l’amico Francis a riscrivere completamente la sua parte per dare la giusta misteriosità al personaggio del colonnello Kurtz, che impazzisce nell’orrore della guerra. A sorpresa si rapa la testa e si fa riprendere al buio con solo una lama di luce che lo disegna davvero come il principe delle tenebre, e recita uno dei monologhi più belli della storia del cinema. Ancora una volta il personaggio che interpreta combatte con la verità e le bugie, e ancora una volta il pubblico fatica a capire se a parlare sia il vero Marlon Brando o il personaggio inventato di Kurtz: “Mi preoccupa che mio figlio possa non capire quel che ho cercato di essere. E se dovessi essere ucciso, Willard, vorrei che qualcuno andasse a casa mia e raccontasse tutto a mio figlio. Tutto ciò che ho fatto. Ciò che ha visto. Perché non c’è niente che detesti più del fetore delle menzogne”, dice sussurrando poco prima di essere ucciso e reso dunque immortale sulle note di “The End” dei Doors. Il mistero dell’attore più bello e più bravo del mondo svanisce nell’oscurità, un attimo prima dei titoli di coda e delle luci in sala.

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