Gli artisti della Gen Z esistono e si rivelano a Casa Testori

Una mostra nella testoriana dimora di Novate raccoglie le opere di una ventina di artiste e artisti nati tra il 1995 e il 2001. Chi sono e cosa aspettarsi

Con un titolo così allusivo, difficile che “La prima volta” a Casa Testori passasse inosservata. E infatti all’inaugurazione di questa mostra collettiva, lo scorso fine settimana, sono passati in tanti. Vale del resto sempre la pena aggirarsi tra gli ambienti al primo piano della testoriana dimora di Novate. Siamo ad appena dieci chilometri dal centro di Milano, eppure qui è tutto un altro mondo: tra queste pareti dei primi del Novecento i talenti artistici si riconoscono, si accolgono e poi si lasciano liberi. È accaduto – giusto per citare due dei casi più noti – con Andrea Mastrovito e Gian Maria Tosatti.

Casa Testori si dedica sì alla valorizzazione dell’opera dell’intellettuale lombardo che praticò tutti i generi della scrittura (romanzi, racconti, poesie, poemi, saggi, testi teatrali, sceneggiature, articoli di giornale) ma, in linea con il temperamento del fu padrone di casa, da quindici anni è anche incubatore per giovani artisti. Un’eccezione, in tempi di gallerie a caccia di novità usa-e-getta da piazzare sul mercato per poi passare al prossimo in lista. Con questa mostra non è certo “La prima volta” che Casa Testori diventa, per citare Giuseppe Frangi, che ne è il vicepresidente, “un luogo dove giovani artisti possono misurare le proprie capacità, ché uno dei nostri compiti è dare ai talenti una chance per emergere”. A questo giro si è dato spazio alla cosiddetta Gen Z, una ventina di artiste e artisti nati tra il 1995 e il 2001 che la curatrice Marta Cereda, di una decina d’anni più grande, ha selezionato (ammette: “è stato un vero carotaggio”) tra quelli «ancora liberi, ai margini del sistema, non omologati e desiderosi di sperimentare».

Per nessuno di loro questa era “la prima volta”: tutti avevano già esposto prima, ma nessuno si era mai messo in mostra qui, in questo spazio unico dove arrivano universitari per consultare la corposa biblioteca di casa mentre in giardino le scolaresche si dedicano ai laboratori creativi. Cereda ha scelto di aprire questa collettiva generazionale con le foto della bolognese Sara Lorusso. Si comincia con quel che ci aspettiamo da rassegne di questo genere ossia immagini di corpi nudi e ribelli che si godono l’estate. Eppure, a ben vedere, ogni scatto è un ragionamento sull’intimità, bene perduto. Procediamo, passando davanti i dipinti dal sapore mediterraneo del pugliese Roberto De Pinto e alle foto naturalistiche della napoletana Enrica Bardi. Ci soffermiamo nel salone, davanti alla grande installazione della veneta Agnese Galiotto: presenta un collage di cartoni preparatori di affreschi che ha fatto in giro per il mondo su edifici destinati alla distruzione. La sua è un’idea così profonda dell’effimero nell’arte, che stupisce venga da una 28enne. I suoi lavori dialogano con gli scatti surreali della sarda Francesca Macis cui spetta il merito di rendere inquietanti i parchi giochi per bambini. Entriamo in cucina: qui la pescarese Alice Pilusi ci mostra il cibo come un feticcio mentre l’italo-bosniaca Adelisa Selimbašić ragiona sull’assurdità di certi standard estetici (brave entrambe). Pietro Guglielmin occupa l’atrio con un notevole dipinto di una recinzione di foglie (è un riparo o una prigione?) mentre nella biblioteca le produzioni ‘tascabili’ di Ilaria Simeoni spuntano tra gli scaffali. Procediamo stando attenti a non inciampare nelle sculture che la veneziana Giulia Querin ha sparso nei corridoi per arrivare alle tele del bresciano Luca Lombardi e ai lavori del siciliano Andrea Camillo che si concentrano sulle nostre attualissime derive digitali. L’abruzzese Benedetta Fioravanti confeziona un video di personalissime “prime volte”, Jacopo Zambello, da Rovigo, osa invece una pittura epica, con personaggi che paiono usciti dall’epopea di Gilgamesh. Accanto, ci sono i dipinti teatrali del napoletano Enrico Loquercio e quelli sognanti della bolognese Camilla Marrese.

Finale in noir: dopo tutta questa vita, infarcita di erotismo, sogni acerbi, desideri intensi e verace critica ai mali del nostro tempo, la mostra si chiude testorianamente con la morte. Il palermitano Giuseppe Di Liberto riprende con intense opere in tempera e cera la ritualità dei lutti nel Sud Italia mentre Martina Andreoni da Segrate presenta una serie di still life dedicati al suo pitone e ai topolini che servono per nutrirlo. Questa chiusa inaspettata, barocca e un po’ macabra sarebbe piaciuta a Giovanni Testori, uno che ha sempre schivato i canoni tradizionali, a loro preferendo l’audacia delle prime volte.

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