Il dramma di Satnam Singh ci ricorda che, in agricoltura, si parla troppo poco di produzione

Sei a cena, conversazioni varie, ovviamente sulla qualità del vino (siamo tutti sommelier, ormai) e c’è sempre una o uno che non mangia. Come mai? Dieta? Cattiva digestione? Allergie? No – è la risposta choc – non mangio farine bianche! Ah – chiedi – come mai? Dieta, cattiva digestione, allergie? No – ti risponde quella o quello – sono stato/a a farmi il test del Dna e si è trovato che, a parte che ho discendenti tra i Neanderthal, che erano cacciatori raccoglitori, non posso mangiare farine bianche, attiverebbero geni oncogeni. Ah, ma perché? Perché – spiegano un po’ scocciati – sono raffinate, c’è qualcosa nella raffinazione che attiva i geni oncogeni. Qualcosa? Qualcosa sì. Vorresti rispondere che le farine bianche non sono raffinate, nemmeno lo zucchero bianco, è solo lavato, ma poi noti che mentre tu mangi un bel piatto di farina bianca, lui/lei, sforzandosi, sta mangiando verdure grigliate: difficile dimenticare quell’espressione un po’ così, per parafrasare Paolo Conte, di quelli che alla fin fine prediligono i cibi senza niente.

   
Giusto per curiosità chiedi solo: quando è costato questo test del Dna? E loro sparano con nonchalance una cifra altissima, e tu pensi: ma non è meglio comprare un libro di Panzironi? Dire cose alla Panzironi, alla Berrino o sulla scia dell’ultimo influencer di grido su TikTok – ce n’è uno che comincia il video buttando via il pane e la pasta, io il pane mai buttato, mia nonna diceva che Gesù piangeva qualora avessi buttato il pane, io sono ateo ma credo che Gesù pianga – non è solo una caratteristica di alcuni salotti, ma un pensiero diffuso e organico.

 

Il fatto è che il dibattito pubblico sull’agricoltura è tutto incentrato su cosa fa bene cosa fa male e pochi si concentrano invece sulla fabbrica. Come funziona? Vi ricordate il vecchio slogan, ora censurabilissimo, come mai sempre in cu… agli operai, bisognerebbe coniarne uno simile e con rima baciata per i braccianti agricoli. Stanno peggio di tutti, loro sì che mangiano male, che lavorano peggio, che guadagnano niente e tutto questo per far arrivare sulla tavola prodotti che poi qualcuno butta via.

 

Adesso sarà un caso che il povero Satnam Singh, lavoratore in nero, con un braccio amputato, scaricato davanti a casa sua, senza telefono che non si sapesse mai che lavorava in nero, sia morto proprio quando quello o quella si lamentava delle farine assassine, ma la dimensione lavorativa dei braccianti agricoli italiani ha poco da invidiare ai più noti lavoratori dei campi ai tempi dello schiavismo.

 

Ci speculano tutti sui braccianti, a volte gli stessi connazionali dei braccianti. Nelle Marche è abbastanza noto il caso di una cooperativa fondata da un cittadino extracomunitario che nel giro di pochi anni è diventato il re dei braccianti. Costui propone braccianti all’agricoltore che li assume ma deve versare Iva e contribuiti direttamente alla cooperativa. Lui diligentemente lo fa, e poi finisce che la cooperativa fallisce senza versare l’Iva né i contributi e i lavoratori restano, simbolicamente, amputati del loro futuro pensionistico. Come se non bastasse, tempo dopo, l’Agenzia delle entrate, in forza della legge sugli appalti che prevede corresponsabilità, va dall’agricoltore che aveva assunto i braccianti e gli chiede di versare nuovamente i contributi, più Iva, ovviamente. Ah, poi la cooperativa riapre, sotto altro nome, ma con la medesima procedura: l’imprenditore è ricchissimo, alla faccia dello spirito cooperativistico, i braccianti no.

 

Quando parliamo di agricoltura, siccome siamo ormai benestanti, volgiamo il nostro sguardo al settore wellness e genetica e non ci preoccupiamo della produzione e di quelli che ci lavorano e muoiono perché ci concentriamo su problemi fantasiosi: va bene o fa male? Si sa la fantasia attira di più ed è tanto elogiata dai creativi, ma certe fantasie alimentari sono così stolte e diffuse che poi procurano un grande danno sull’analisi della realtà, agricola e non solo.

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