Dannati pomodori. Dallo Xinjiang all’Italia

A fine aprile scorso, la propaganda cinese, tramite i media ufficiali e i suoi megafoni anche italiani, aveva rilanciato più volte quello che veniva descritto come un successo strepitoso nelle relazioni Italia-Cina, capace perfino di cancellare l’onta dell’uscita da parte del governo Meloni dalla Via della seta cinese: il treno diretto dalla Cina a Salerno, 10 mila chilometri per garantire “la stabilità del commercio”. Ma era solo l’inizio di un concentrato di problemi. Altro che arance. 

 

Il treno era partito alle 11 e 18 minuti in punto del 26 aprile dalla stazione di Urumqi, la capitale della martoriata provincia autonoma cinese dello Xinjiang. Secondo gli apologetici articoli sui media cinesi, il collegamento ferroviario è "un progetto di punta della cooperazione Cina-Ue sulla Via della seta”, aveva scritto Fu Cong, ex ambasciatore cinese presso l’Ue su Euractiv, e “un'ancora di salvezza per il commercio Cina-Ue in questo momento critico". Il riferimento è alle aggressioni degli houthi nel Mar rosso e nelle acque della regione, compreso il canale di Suez, che rendono difficoltoso il trasporto dall’Asia via mare – Pechino nega di essere “immune” dagli attacchi, come dichiarato spesso dalla leadership del gruppo yemenita. Ad ogni modo, ecco la soluzione del ferro della China-Europe Railway Express (CR Express), che dimezza i tempi (dal porto di Tianjin per raggiungere l'Italia possono essere necessari circa due mesi e mezzo, mentre la nuova rotta dura in genere dai 30 ai 35 giorni) e porta il pomodoro a destinazione in tempo per essere processato in Italia: la maggior parte delle esportazioni agricole dallo Xinjiang verso l’Italia sono di pomodoro.

 
Ma il trasporto non avviene attraverso un vero e proprio treno: si tratta in realtà di un metodo intermodale su rotaia e mare, attraverso la rete di ferrovie, navi cargo e terminal portuali con sostanziose partecipazioni oppure (spesso) di completa proprietà cinese, attraverso l’Asia centrale passando per il Caucaso e poi, naturalmente, per il porto del Pireo in Grecia, controllato per il 64 per cento dalla compagnia di stato cinese Cosco. Una rete fittissima e capillare che Pechino ha costruito in anni di investimenti sulla Via della seta. 
Attraverso questo fitto incastro di sali e scendi, carica e scarica, poco più di un mese dopo la loro partenza, e più precisamente alle 3:04 di mattina del 30 maggio scorso, i container della prima missione “via treno” Cina-Italia sono attraccati al porto di Salerno, in Campania. Ad attendere lo sbarco, però, c’erano i Carabinieri del Nas, e un gruppo di manifestanti di Coldiretti. 

 

“Ma saranno quarant’anni che va avanti questa politica, che è europea eh”, dice al Foglio chi risponde dall’agenzia delle Dogane di Salerno, “noi il concentrato di pomodoro lo compriamo dalla Cina e lo trasformiamo in triplo concentrato dopodiché viene esportato in altri paesi del mondo, mica in Italia”. Per qualche ragione, in alcuni settori, la colpa è sempre dell’Europa, anche per quanto riguarda prodotti che hanno il marchio “Made in Italy”, e che in realtà contengono, anche se in minima parte, salsa e concentrato di pomodori che vengono dallo Xinjiang, la regione autonoma cinese dove, secondo testimonianze, rapporti e inchieste giornalistiche, a raccogliere i pomodori è la minoranza turcofona e a maggioranza musulmana degli uiguri. Tre anni fa Irpi media pubblicò un’inchiesta tra le più dettagliate, sulla filiera produttiva e sul fatto che quei concentrati di pomodoro sono “collegati a un sistema di capillare repressione che il governo di Pechino applica nei confronti della minoranza etnica degli uiguri. Ma, una volta ‘ripulito’ dagli stabilimenti italiani il legame con lo Xinjiang scompare. Per il consumatore è praticamente impossibile esserne a conoscenza”. 

 
Dunque il controverso treno all’arrivo in Italia ha trovato due diverse opposizioni: da un lato chi chiede più controlli sulla filiera di produzione del Made in Italy (Coldiretti) e dall’altro chi denuncia l’introduzione, sul mercato europeo, di prodotti frutto del lavoro forzato. 

 
Il 30 maggio scorso le bandiere di Coldiretti hanno sventolato durante l’ispezione del Nas, da gommoni e barchini gli attivisti hanno aspettato lo sbarco e poi, venti giorni dopo, il 10 giugno scorso, hanno “scortato” i container verso le fabbriche italiane di trasformazione di Sarno (l’area del famoso pomodoro San Marzano). “A mandare i Nas è stato il ministero dell’Agricoltura”, dice una fonte di Coldiretti al Foglio. E infatti il 30 maggio scorso il ministro Francesco Lollobrigida ha pubblicato una foto notturna, da vigilante dei pomodori: “Cargo cinese attracca alle 4 a Salerno e i nostri ad aspettarlo”. “In realtà hanno fatto solo i test per la presenza del batterio Listeria”, prosegue la fonte, “e l’esito è stato negativo”. Contattato dal Foglio, il nucleo anti sofisticazioni dei Carabinieri non ha potuto rispondere perché l’indagine “potrebbe essere ancora in fase istruttoria”. Ma per Coldiretti naturalmente il problema non è la Listeria (“che al massimo ti dà la diarrea”) ma la protezione del Made in Italy. “La polemica di Coldiretti è sempre la stessa da 15 anni. La posizione di Anicav è molto chiara: il semilavorato che arriva non è destinato a quella che è la lavorazione delle conserve che restano in Italia, ma è un prodotto in regime di temporanea lavorazione e comunque si tratta di percentuali bassissime”, spiega al Foglio Andrea Pascale, della comunicazione di Anicav, la Confindustriale delle Conserve alimentari vegetali. Insomma, “il concentrato cinese comunque non finisce sulle tavole degli italiani”. Ma su quelle di qualcun altro: “Ma no, gli americani ci fanno il ketchup”, sostiene un altro imprenditore della filiera. Per Anicav resta il dato scientifico: è tecnicamente impossibile fare con il pomodoro cinese quello che troviamo sugli scaffali del supermercato perché “concentrati, pelati, passate, polpe e pomodorini che troviamo sugli scaffali dei supermercati sono ottenuti da pomodoro 100 per cento italiano di alta qualità, come indicato anche in etichetta, che deve essere lavorato entro 24 ore dalla raccolta”. 
Ma che ne è dell’altro problema, quello dei prodotti agricoli proveniente da una regione che vende sottocosto i prodotti perché frutto di lavoro forzato? Su questo Anicav concorda, è un problema. 

 
Eppure il governo italiano, e in particolare il ministero di Lollobrigida, sull’etica dei prodotti agricoli in sede europea si era espresso in modo contrario. Lollobrigida aveva addirittura azzardato una spiegazione: gli americani non vogliono che compriamo il pomodoro cinese perché almeno quella fetta di mercato se la prendono loro. Ma l’opposizione italiana (e tedesca) non ha fermato l’iter di una legge europea che presto potrebbe bloccare l’import del pomodoro cinese. Il 23 aprile scorso il Parlamento europeo ha adottato con 555 voti a favore, 6 contrari e 45 astensioni il regolamento che “vieta i prodotti realizzati con il lavoro forzato”. Il testo ora deve ottenere una seconda approvazione informale nelle 24 lingue del Parlamento – e se ne parla a settembre, con l’insediamento del nuovo Parlamento – e poi il Consiglio dovrà approvare il testo finale a livello di Coreper (cioè il Consiglio dei rappresentanti permanenti) e adottarlo formalmente a livello ministeriale senza discussione nel Consiglio successivo. Una volta che la legge sarà pubblicata nella Gazzetta ufficiale Ue, gli stati membri avranno tre anni per prepararsi alla sua applicazione. Contattato dal Foglio, il ministro Lollobrigida non ha risposto a una richiesta di commento sull’argomento.

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