Il massacro dei cristiani in Africa

Roma. “Più di sessanta cristiani sono stati uccisi, inclusi un funzionario dell’esercito, in un attacco dei soldati del Califfato nel Congo orientale”. Così, su Telegram, un messaggio dava conto dell’ennesima strage di cristiani nel paese africano. Dall’inizio di giugno, secondo quanto riportato dall’Agence France Presse, i morti sono stati centocinquanta. Il 7 giugno, nella regione attorno alla città di Beni, i miliziani hanno ucciso 41 persone, alcune delle quali trovate “legate” e “decapitate”. “Hanno sparato sulla popolazione e i corpi hanno iniziato ad arrivare in ospedale”, ha detto un testimone. Nella prima decade del mese, lo Stato islamico ha rivendicato quindici attacchi a villaggi e lungo le strade della zona, stimando in 125 le vittime complessive. I numeri ballano, le fonti non concordano: c’è chi dice poco più di cento, chi quasi centocinquanta. Dettagli in un contesto che si fa ogni giorno più complicato. La costola congolese del Califfato è rappresentata dall’Adf, le Forze democratiche alleate, una coalizione ribelle composta per lo più da miliziani ugandesi musulmani, che da tre decenni imperversa nella parte orientale del paese. Da anni le forze regolari (congolesi e ugandesi) conducono operazioni congiunte contro l’Adf nel Kivu Nord e nella provincia di Ituri, senza riuscire a fare più di tanto per sradicare il gruppo jihadista: paradossalmente, il risultato dell’offensiva militare è stata quella di spostare progressivamente sempre più a ovest l’area in cui i jihadisti sferrano attacchi contro i civili. Si stima che solo nel 2020 l’Adf abbia assassinato 849 persone (uomini, donne e pure bambini) nei territori in cui imperversa. L’Armed Conflict Location and Event Data (Acled) certifica più di mille morti nel 2023. Il quadro è reso ancora più complesso dal fatto che – come riferisce African News – sulla regione insistono “più di centoventi gruppi terroristici, che combattono per il potere, la terra e le risorse minerarie”. Gruppi che approfittano del caos per espandere la propria influenza su una regione già instabile. Nel mirino ci sono soprattutto i cristiani (rappresentano il 95 per cento della popolazione congolese), come sottolinea la World Watch List di Open Doors. 

 

Il Rapporto del dipartimento di stato americano sul terrorismo da tempo ha messo sotto osservazione le attività del microcosmo islamista in Congo. L’Adf ha giurato fedeltà all’Isis nel 2017, ma da ben prima conduceva operazioni contro le Forze armate statali e i soldati della missione Onu Monusco. Tra il 2020 e il 2022, l’area operativa dei jihadisti si è più che raddoppiata. Ciò è stato possibile grazie sia a risorse locali sia alle connessioni internazionali dell’ex leader Jamil Mukulu, che ha lavorato per ottenere finanziamenti dall’estero. Circa un terzo dei membri dell’Adf è ugandese e il reclutamento avviene – scrivono a Washington – “attraverso la coercizione e l’inganno”. Sempre più, però, sono i miliziani stranieri provenienti da Burundi, Tanzania, Kenya, Somalia, Ruanda e perfino dalla Giordania. Gli attacchi si sono intensificati quando gli agricoltori si preparavano per il raccolto, costringendoli alla fuga e privandoli dunque dei mezzi di sostentamento. Domenica scorsa, al termine dell’Angelus, il Papa ha rivolto un appello alle autorità locali e alla comunità internazionale “affinché si faccia il possibile per la cessazione delle violenze e per la salvaguardia della vita dei civili. Tra le vittime, molti sono cristiani uccisi in odium fidei. Sono martiri. Il loro sacrificio è un seme che germoglia e porta frutto, e ci insegna a testimoniare il Vangelo con coraggio e coerenza”. Più di cinque milioni sono gli sfollati (secondo il Coordinamento della società civile di Bukavu, sono sette milioni) e gli aiuti umanitari non riescono a raggiungere le zone più esposte alla violenza jihadista. Spesso, chi alza la voce contro la violenza viene rapito e di lui non si sa più nulla. 

 

L’appello degli esponenti della società civile locale è a guardare con attenzione quanto accade in Africa, soprattutto nel vasto quadrante subsahariano: Nigeria, Congo, Mozambico, Somalia. L’avanzata di gruppi islamisti, affiliati – chi più, chi meno – all’Isis è un’evidenza che sta mettendo in crisi le istituzioni statali. Un problema in più oltre al dramma umanitario.

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