Il dilemma della decontribuzione. Meloni e Giorgetti prigionieri della loro misura di successo

Il fiscal drag si è mangiato dieci anni di tagli dell’Irpef, scrive l’Upb. Lo sgravio contributivo ha protetto dall’inflazione, ma ha creato altri due problemi: è costosa e distorsiva. Utile come misura temporanea, ma dannosa se diventa strutturale

“È un impegno assolutamente inderogabile e lo confermeremo” ha detto Giancarlo Giorgetti a proposito del taglio del cuneo fiscale, a margine della presentazione del Rapporto sulla politica di bilancio dell’Upb. Il ministro dell’Economia ha specificato che non verrà finanziato in disavanzo: “I deficit sono quelli che abbiamo indicato nella Nadef e nel Def, e che intendiamo assolutamente rispettare”.

Ecco quindi i due paletti del governo per la prossima manovra: proroga della decontribuzione, che costa circa 11 miliardi, e niente scostamenti dai saldi promessi a Bruxelles, anche perché proprio ieri la Commissione Ue ha aperto un’annunciata procedura per deficit eccessivo nei confronti dell’Italia.

All’interno di questo quadro contingente, però, è interessante guardare a un capitolo del denso rapporto dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) che mette in prospettiva l’evoluzione della tassazione e in particolare dell’Irpef nell’ultimo decennio. Il primo dato generale è che negli ultimi venti anni in Italia la pressione fiscale è aumentata di circa 3 punti (dal 39,6% a 42,7%), un punto sopra alla media europea.

Con riferimento alla sola Irpef e alle riforme che si sono susseguite nell’ultimo decennio, l’Upb evidenzia due trend: da un lato la progressiva erosione della base imponibile, che ha portato molti redditi fuori dall’imposta (cedolare secca sugli affitti, esenzione per gli agricoltori e la cosiddetta flat tax per gli autonomi progressivamente estesa fino a 85 mila euro di ricavi); dall’altro lato una serie di interventi volti a ridurre le aliquote sui redditi da lavoro dipendente “intrappolati” nell’Irpef.

La prima modifica è stata il Bonus 80 euro, introdotto nel 2014 dal governo Renzi, che ha dato circa 10 miliardi a 10 milioni di persone sotto i 24 mila euro di reddito (con un ripido décalage fino a 26 mila). L’ultima è stata il cosiddetto “primo modulo” della riforma fiscale, introdotto dal governo Meloni, per ora annuale ma da confermare nella prossima legge di Bilancio, che ha ridotto di 2 punti l’aliquota del secondo scaglione (15-28 mila euro) accorpandolo al primo. Nel mezzo ci sono state le riforme dei governi Conte e Draghi che, con un costo di circa 7 miliardi l’una, hanno i rimediato alle storture del bonus Renzi che in prossimità della soglia superiore faceva scattare aliquote marginali altissime (80%) che distorcevano l’offerta di lavoro ed erano un ostacolo per gli accordi sui rinnovi contrattuali.

Il dato sorprendente dell’analisi dell’Upb è che, a causa del fiscal drag (l’aumento delle imposte dovuto all’interazione tra inflazione e sistema fiscale progressivo), dopo dieci anni di tagli di Irpef i lavoratori ne pagano più di prima. In pratica, il drenaggio fiscale – che si è intensificato con la fiammata inflattiva degli ultimi anni – si è mangiato tutte le riduzioni delle aliquote: “A parità di potere d’acquisto, nel 2024 i lavoratori dipendenti pagano aliquote medie generalmente superiori a quelle che si pagavano nel 2014”, scrive l’Upb. Un lavoratore dipendente oggi paga dai 321 euro (10 mila euro di reddito) a 1.020 euro (100 mila euro di reddito) in più di Irpef rispetto a dieci anni fa.

Questo fenomeno è stato contrastato dalla decontribuzione, che il governo Draghi ha introdotto inizialmente a 0,8 punti, per poi alzare a 2 punti, e che infine il governo Meloni ha portato a 7 e 6 punti rispettivamente fino a 25 mila e a 35 mila euro di reddito. Come ha certificato l’Upb, in un’altra analisi dello scorso novembre, lo sgravio contributivo ha aumentato la progressività del sistema fiscale e ha più che compensato il fiscal drag: i redditi medio-bassi hanno quindi, tra Irpef e contributi, pagato meno tasse.

Ma se il forte sgravio contributivo ha risolto un problema ne ha creati altri due. Il primo è la riproduzione, in forma più accentuata, dei difetti del Bonus Renzi. Perché al superamento delle soglie, le aliquote marginali sono ben superiori al 100%: l’aumento di un solo euro di reddito fa perdere 150 euro superati i 25 mila euro lordi e 1.100 euro superati i 35 mila euro lordi. Guadagnare di più fa perdere un sacco di soldi. Se quindi la decontribuzione è stata utile come provvedimento temporaneo, diventa molto problematica come misura strutturale. Perché fortemente distorsiva, soprattutto in una fase come questa dove sono in discussione numerosi rinnovi contrattuali (si pensi solo a quello dei metalmeccanici): un problema in più per le relazioni industriali e la contrattazione collettiva.

Il secondo problema è il finanziamento visto che, come ha detto il ministro Giorgetti, il governo vuole confermare la misura. Con il Bonus 80 euro, i governi successivi hanno risolto il problema delle aliquote marginali disegnando degli scivoli a favore dei redditi sopra la soglia, quindi estendendo i benefici: è il caso sia della riforma Conte del 2020 sia della riforma Draghi del 2021 (costo complessivo: 14 miliardi).

Ma in questo caso è impossibile, dato che il governo deve già trovare 11 miliardi per prorogare la decontribuzione. Dove trova gli altri per allungare uno scivolo al posto dello scalone che scatta a 35 mila euro? Una soluzione era comparsa l’anno scorso, in un comunicato del Mef modificato retroattivamente e poi rimosso: prevedeva una rimodulazione del taglio del cuneo contributivo a scalini: 7 punti percentuali fino a 15 mila euro di retribuzione, 6 punti tra 15 mila e 28 mila, 5 punti tra 28 e 30 mila, 4 punti fra 30 mila e 32 mila, 3 punti tra 32 mila e 35 mila. Il Mef si rimangiò quella formula perché, sebbene un po’ più sensata e meno distorsiva, riduceva lo sgravio anziché confermarlo.

Così ora il governo Meloni è vittima della sua misura di successo: non ha i soldi per migliorarla ampliandola e non vuole pagare il prezzo politico per migliorarla riducendola. Al massimo spera di confermarla, anche se “da un lato indurrebbe un forte disincentivo al lavoro – scrive l’Upb – e dall’altro renderebbe più difficile raggiungere nuovi accordi contrattuali”.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali

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