Abolire la maturità? No, teniamoci l’esame di stato e aboliamo Ungaretti

Ma no, perché abolirlo? Negli anni scorsi, a ogni giugno, scrivevo più o meno lo stesso articolo di commento all’Esame di stato concludendo che insomma sarebbe stato meglio abolirlo, tanto lo passano tutti, e un esame in cui quasi tutti vengono promossi non è un esame, meglio risparmiare la fatica e i soldi (perché montare la macchina, tra l’altro, costa). Ma commettevo un errore categoriale. L’Esame di stato non va sistemato, mentalmente, nella categoria “Esami”. In quale, allora? Un po’ in quella del “coming of age”, cioè prova o rito di passaggio che simbolicamente sanziona la transizione dalla condizione di “immaturo” a quella di “maturo” (il vecchio nome aveva il suo perché). Una prova di passaggio commisurata ai nostri tempi incruenti: non buttarsi da un albero o dormire una notte nella foresta o affrontare un puma a mani nude ma prima (1) preparare la famosa tesina, cioè uno scritto di 7-8 pagine in cui si collegano in un unico discorsone il maggior numero di argomenti, discipline, problemi che si sono studiati a scuola, tenuti insieme se possibile da un’unica capientissima Istanza Morale, poi (2) presentarsi a scuola vestiti decentemente per scrivere dei temi e parlare (della tesina e altro) con alcuni dei propri professori + alcuni professori che vengono da altre scuole. Impegno serio, tutto sommato, ma non a livello-puma.
 

Dunque il ‘coming of age’ non basta, non giustifica tutto questo fervore. La categoria pertinente, per l’Esame di stato così com’è andato modellandosi negli ultimi anni, è invece quella di festività. Qualche anno fa, Philippe Muray coniò l’etichetta di homo festivus per dare un nome alla gaia umanità che brucia il suo tempo nei mille intrattenimenti che il mondo del post-lavoro inventa per far girare a regime il suo pletorico settore terziario. Muray pensava alla Festa della Musica o a Paris-Plage, noi potremmo pensare, molto più in grande, al Festival di Sanremo o ai Mondiali di calcio; ma anche, in piccolo, al dilagare di Halloween o alla pizzata coi compagni della palestra. “Ma non devi avere paura: in fondo è una festa!”. Questo, che era il paterno o materno ammonimento che si dava ai maturandi, è diventato fattualmente vero. Una festa. E, a differenza di molte altre manifestazioni dell’homo festivus, una festa che non separa ma unisce le generazioni: lo si capisce già giorni, settimane prima degli esami, quando in rete comincia a circolare Notte prima degli esami di Venditti, e al povero professore di lettere viene chiesto da giornalisti ammiccanti se Dante era un uomo libero o un fallito o un servo di partito (ma vattene affanculo), e i genitori e i nonni si commuovono raccontando di quanto seriamente la prendano i loro figli e nipoti, che uno ne parla male ma poi quando la Storia chiama…, e la mattina della prima prova ecco fiorire le foto su Instagram, i messaggi d’incoraggiamento su X (“Ragazzi, d’ora in poi sarà tutto un esame!”), i commenti ai temi del redattore laureato in Filosofia riesumato per l’occasione dalla sezione Cultura, i servizi al telegiornale, questo articolo… Una festa, e ci mangiamo in tanti. Abolirla, lo dico senza ironia, sarebbe un gesto da misantropi.
 

Senza contare che, come si sa, in capo a pochi anni la Festa – se partecipata – diventa Religione Civile. E questo è un paese che ha tanto bisogno di eventi aggreganti, di marcatori d’identità, specie adesso che cominciano a esserci tanti italiani che non sono nati in Italia: e uno può schifare il Festival di Sanremo, può non essere interessato al calcio, o persino tifare Marocco quando c’è Italia-Marocco, ma se ha fatto l’Esame di Stato riconoscerà fratello chi ha fatto l’Esame di Stato come lui. Ma anzi: perché non farlo ogni anno?
 

Quanto alla prima prova di ieri, cioè al caro vecchio TEMA, in primo luogo sono sempre colpito dalla difficoltà delle tracce. In verità non lo sono particolarmente quelle di quest’anno (poesia di Ungaretti, brano dal Serafino Gubbio di Pirandello, brano di Galasso sulla Guerra fredda, brano sulla bellezza dell’Italia, brano sull’importanza del silenzio, elogio dell’imperfezione di Levi-Montalcini, riflessione sui blog), ma, dato che ogni anno mi trovo a leggere la prosa di un cospicuo numero di matricole universitarie, ho l’impressione che qualsiasi traccia che richieda un’argomentazione ordinata soprattutto in relazione a testi letterari superi le capacità della gran parte degli studenti, i quali – per mascherare la loro ignoranza e la loro inabilità alla scrittura – si rifugiano nei luoghi comuni e cuciono insieme parole e frasi un po’ a caso, producendo (come si dice) elaborati atrocissimi. Forse sarebbe meglio chiedergli di fare un riassunto, o di parlare liberamente di sé (“Dite perché odiate vostro padre, perché odiate la scuola, perché odiate me”, è una delle tracce che proponeva Paul Goodman tanti anni fa: non aveva tutte le ragioni, ma neanche tutti i torti).
 

In secondo luogo, sono colpito dalla curvatura moralistica che ha preso l’educazione artistica, e letteraria in particolare. Più che invitare ad apprezzare la qualità di un testo, o la sua coerenza, praticamente tutte le tracce proposte sollecitano una risposta virtuistica: la poesia di Ungaretti servirà a dire quanto è brutta la guerra, il brano di Pirandello quanto fa paura il mondo meccanizzato, la pagina di Galasso quanto è dissennato un mondo che corre ad armarsi o a riarmarsi… Sono colpito, non meravigliato, perché questa curvatura la vedo già nei manuali, nelle scuole, nel corrente dibattito sulla letteratura: le librerie sono piene di libri scritti coi piedi, e pensati peggio, che presumono però di trasmettere al lettore preziosissime lezioni morali. La letteratura non serve a questo, in realtà: quello è il catechismo. Ma credo che sia una battaglia perduta.
 

In terzo luogo, constato che Ungaretti è sempre lì. L’altra mattina, esame di Letteratura italiana, il discorso cade su Pasolini. Il candidato lo ha a malapena sentito nominare. “Ma scusi, è vivo o è morto?”. “Mmmm, vivo?”. “Ma scusi, a scuola dove siete arrivati col programma?”. “Ungaretti”. Arrivano a Ungaretti. Qui c’entra una mia personale antipatia: mi pare che Ungaretti abbia scritto poche poesie belle e molte poesie brutte, e che compendi in sé tutto il peggio del “Poetico” malinteso: ampollosità, retorica, lamento, moralismo, vacua enfasi del verso-parola smozzicato (nell’Allegria, almeno, che è quasi sempre l’unico Ungaretti che si legga a scuola); con generazioni di seguaci, di imitatori che hanno pensato che la poesia fosse scrivere versi “alla Ungaretti”, e ancora lo pensano, intasando di robaccia i premi letterari. Opinioni. Però anni fa al ministero avevano scelto Lucca, e io immaginavo questi adolescenti ubriachi di ormoni, nella canicola, impegnati a commentare versi come “Conosco ormai il mio destino, e la mia origine. / Non mi rimane che rassegnarmi a morire”. Adesso è la volta di Pellegrinaggio: “Ho strascicato / la mia carcassa / usata dal fango / come una suola”. E non è che occorra per forza cercare delle poesie allegre, lo so che non ce ne sono tante, ma questa nota mortuaria – in un momento topico come l’Esame di Stato – rischia di innescare nei cervelli degli studenti brutte reazioni pavloviane: finiranno per pensare che la letteratura si occupa della morte o dei morenti, mentre fuori dalla finestra splende il sole di giugno. Si potrebbe fare così: tenere in piedi l’Esame di stato, magari ribattezzandolo Festa dell’Estate, per onestà; e abolire Ungaretti.

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