Renzo Arbore, il clarinetto e quella laurea al Conservatorio

Fu in principio il fastidio quotidiano che affliggeva il dottor Giulio Arbore di Foggia, accorsato odontoiatra (si perdoni l’aggettivo tipicamente meridionale). Un fastidio che, peggio, turbava i suoi pazienti al tempo in cui negli studi dentistici si sentiva spesso gemere e urlare per la minore efficacia di strumenti e anestesie. Era, il molestatore, un principiante di clarinetto che s’inerpicava maldestramente per scale e intervalli alterando la nervatura al vicinato. Sarebbe stato però la fortuna di Lorenzo Giovanni detto Renzo, figlio del dentista e allora sedicenne già accattivato dalla musica, che col disturbatore fece amicizia: “Si chiamava”, ricorda, “Franco Sciagura”. Come? “Sciagura, proprio così, ma nella cerchia dei conoscenti lo chiamavamo Tolomei, cognome della madre. Mi confidò che avrebbe preferito suonare la tromba. Io ne avevo appena comprata una piuttosto economica, sicché gliela diedi in cambio del clarinetto. Diventò un ottimo trombettista jazz”.

Comincia così la love story tra Renzo Arbore e lo strumento grazie al quale frequentò i primi locali da ascoltatore e esecutore, tessendo un successo assai lontano dalla professione paterna e dalla laurea in Giurisprudenza che andò a prendersi a Napoli. La transazione col vicino di casa fecondò l’embrione che avrebbe dato vita un giorno a L’Orchestra Italiana e per cui mercoledì 12 giugno Arbore è stato insignito dal Conservatorio “Umberto Giordano” di Foggia del diploma di secondo livello honoris causa in clarinetto. “Per aver arricchito – è scritto nella motivazione – la diffusione della musica ‘popular’, impreziosita da assoli di clarinetto, all’interno della cultura italiana, adottando nuove modalità di comunicazione che hanno sempre orientato al felice incontro tra cultura e popolarità, nel segno della sperimentazione di nuovi linguaggi”.

Facciamo un lungo passo indietro, perché quando il figlio del dentista comincia a soffiare nel clarinetto è il 1953; un passo tanto per sapere come la prese il dottor Giulio a ritrovarsi, in casa, quel tormento acustico. “Mentiva ai pazienti facendo credere che era sempre il vicino a suonare, ma quando saliva da studio mi diceva: ‘Non potresti suonare più piano?’. E io: ‘Papà, devo imparare Summertime…”.
 

Perché il clarinetto e non il pianoforte o la chitarra? “Me ne innamorai perché mi somigliava. Nell’orchestra jazz non era il solista principale ma affiancava la tromba, ‘sfruculiava’ trombone e pianoforte, s’inseriva con un ruolo insinuante, un po’ come il giocatore che smista il pallone ai compagni. Se ci rifletto è quel che ho fatto coi miei amici: i programmi alla radio o in tv sono stati jam session, con Benigni, Troisi, Laurito, Frassica, Marenco, Bracardi… Facevo lo ‘sfruculiatore’, lo stimolatore”. Ma alle volte no: nel 1986 presenta a Sanremo, arrivando secondo, un brano intitolato proprio Il clarinetto, protagonista della musica e del testo che è tutto un doppio senso erotico immaginabile, però elegante, nell’anno in cui il Festival è presentato da una conduttrice anche se di parità di genere si parlava molto meno di oggi (Loretta Goggi tenne le redini della trentaseiesima edizione).

“Avevo lanciato o rilanciato vari generi musicali, dai Beatles e i Rolling Stones con Gianni Boncompagni allo swing e alla canzone classica napoletana, quando persino i napoletani la snobbavano per la solita paura dell’effetto cartolina. Pensai di rilanciare anche la canzone umoristica, per di più con lo strumento che adoravo. Con Claudio Mattone avevo preparato i brani Grazie dei fiori bis, che doveva andare a Sanremo, e Il clarinetto, ma seguendo il suo suggerimento rovesciai la preferenza”. “Quella sera, subito dopo l’esibizione, il primo a telefonarmi fu Lucio Dalla, contentissimo perché avevo celebrato il nostro strumento”. Oggi risulterebbe un brano sessista? Per nulla, a giudicare dai commenti sul web. “Comunque mi tolgo il cappello davanti agli organizzatori di allora: Gianni Ravera ritirò su il Festival dalla fase declinante delle esibizioni in playback e arrivarono ospiti internazionali di prestigio”.

Allo “sfruculiatore” era già piaciuto titillare le censure al cinema con Il pap’occhio e con “FF.SS.” – Cioè: “… che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?”. Il primo film fu sequestrato poi ridistribuito; nel secondo si elargivano battute velenose sui socialisti e sul leader democristiano Ciriaco De Mita. Reazioni? “Solo Clemente Mastella se la prese un po’ e sbottò: ‘Meno male che eri un amico!’. FF.SS. è un film che in un periodo di pesanti pregiudizi su Napoli rivendicava per la città una chance, anzi ‘una sciansa’, per dirla come nel copione. E anticipò di alcuni anni il principio della ripresa, che a mio avviso cominciò con il vertice G7 del 1994”.

Fu a Napoli che Arbore sarebbe diventato Arbore. Assaporò, quando scese dal treno da Foggia, un’anticipazione dell’America dove molti anni dopo avrebbe tenuto i concerti con L’Orchestra Italiana: trovò una New Orleans in miniatura nei locali notturni praticati dai militari americani e cominciò a suonare. Non soltanto il clarinetto: “Nel club U.S.O., ossia United Service Organizations, a Calata San Marco vicino a piazza Municipio, mi chiamavano anche a fare il contrabbasso finto: mettevo un po’ di note di accompagnamento e senza l’amplificazione nessuno s’accorgeva degli errori. Quando conobbi Gigi Proietti mi confidò che da giovane era stato, pure lui, finto bassista”. Entrò nel Circolo napoletano del jazz: si pagavano 15 mila lire al mese per una sala dello storico Hotel Bertolini, che aveva già ospitato la vedova di Enrico Caruso e ospita attualmente banchetti nuziali. “Frequentavamo anche un locale di via Partenope, il ‘Sombrero’, dove spendevo la paga che mi mandava mio padre per ascoltare rinomati jazzisti italiani: Franco Cerri, Lucio Reale, Lillino Boccalone, che sposò Gloria Christian. Però la più grande emozione fu quando c’invitarono a esibirci su una portaerei dell’Us Navy, la Lake Champlain. Suonare il clarinetto lassù avrebbe inciso persino sulla mia fede politica. Sono sempre rimasto, malgrado tutto, filoamericano convinto”. Sono anche gli anni in cui scopre la musica napoletana, conosce Roberto Murolo e Sergio Bruni, i Coppi e Bartali della tradizione classica. L’uno borghese, l’altro di finissima timbrica popolare. “Rivali sì ma amici che si rispettavano. Mi aggregavo alle serate, anche non remunerate, che tenevano in tante case napoletane, per esempio quelle di nobili decaduti dove assaggiavamo degli ottimi ragù. Molto tempo dopo avrei aiutato Murolo che attraversava un periodo difficile, ed è stato al suo modo di cantare, da crooner napoletano, che mi sono sentito più vicino”.
 

Sulla critica alla “Napoli borghese” che tradirebbe l’autenticità della vena popolare, un cliché riproposto fino al marchio di genuinità di Geolier, Renzo Arbore è netto: è una consunta tesi alimentata dall’ideologia. Lui resta dell’idea, di cui discusse in un documentario televisivo con Raffaele La Capria, che a parte poche eccezioni come Raffaele Viviani o Salvatore Gambardella i grandi autori della canzone e del teatro partenopeo siano stati borghesi, cominciando da Salvatore Di Giacomo e Eduardo De Filippo. Vengono dalla “Napoli signora” i narratori di una popolazione urbana reinventata ma anche descritta crudamente, da Assunta Spina alla serie tv Gomorra, e di cui altrimenti labile traccia resterebbe alla consumazione della cronaca (col tempo i critici militanti hanno aggiustato il tiro anche su Giuseppe Marotta, sconsacrato da vivo perché si confondeva la buona scrittura con l’oleografia).

Il borghese fuorisede con il clarinetto racimolava spunti per parecchie idee future, come quella del brano Smorz’e lights dell’81, che lamentava la difficoltà di liberarsi dei jeans per una coppia in vena di effusioni: “L’ispirazione risaliva a quando ci appartavamo in macchina nel Parco della Rimembranza, meta di chi non disponeva di alternative più comode”. In quelle utilitarie-alcove, coi finestrini coperti dai giornali per favorire l’intimità, migliaia di autodidatti del kamasutra si dovettero arrangiare negli angusti spazi ulteriormente svantaggiati dalla scomodità dei Levi’s. E il clarinetto? “Nei primi tempi abitavo di fronte alla caserma dei carabinieri ‘Salvo D’Acquisto’, e qualche volta mi divertivo a fare il controcanto alla tromba dei militari. Poi andai ad alloggiare nella Pensione dei Mille in piazza Amedeo, che fu una palestra di vita perché ospitava studenti e anziani, fuoriusciti d’ogni genere e gente appena dimessa dagli ospedali psichiatrici. C’era di tutto, perciò mi esercitavo al clarinetto con più moderazione…”. Arbore ricorda una terza dimora napoletana che lo ospitò per un anno “ma in terribile solitudine: la spartana camera ammobiliata all’ultimo piano di un palazzo di Santa Lucia, in via Generale Orsini numero 40. L’unica cosa positiva è che nei pressi c’era il Bar California, dove si mangiava ‘americano’, e c’incontravo ogni mattina il boss Lucky Luciano che soggiornava a Napoli. Più del curriculum criminale, m’impressionava che fosse amico di Frank Sinatra, però ero talmente intimidito che non andai mai oltre il consueto ‘good morning’. Per una strana coincidenza, nel mio stesso palazzo abitavano due ragazzi di cui allora ignoravo l’esistenza: Luciano De Crescenzo e Carlo Pedersoli alias Bud Spencer. Combinazioni del destino che contrastano col calcolo delle probabilità. Non è la sola volta che mi è successo: sembra inverosimile, ma non è fandonia che incontrai Dalla quando aveva tre o quattro anni e io nove o dieci. Scendeva di tanto in tanto a Foggia con la sua mercanzia una certa signora Melotti, conosciuta come ‘la modista di Bologna’. Una volta si presentò a casa con il figlioletto un po’ irrequieto e mia mamma m’incaricò di intrattenerlo mentre guardavano i vestiti. Un giorno di tanti anni dopo Lucio mi fa: ‘Sei per caso il figlio della signora Arbore? Io sono il figlio della signora Melotti’”.
Con Dalla e il regista Pupi Avati, clarinettisti che si erano contesi il posto nella bolognese Doctor Dixie Jazz Band, Arbore suonò e si divertì: ha ripescato e postato in rete anche una gag televisiva in cui Dalla smonta lo strumento e ne mima gli utilizzi surreali. Assieme s’esibirono per la “Festa Azzurra” al Madison Square Garden di New York in onore della Nazionale di calcio nei Mondiali 1994.

Nella Doctor Dixie Jazz Band, il gruppo musicale amatoriale più longevo al mondo (settant’anni nel 2022), Arbore fece il secondo esordio da clarinettista: “Non avevo suonato in pubblico dopo il periodo napoletano, perché quando divenni famoso avevo la terribile paura di essere criticato per la mia tecnica. Poi, a un festival Umbria Jazz a Perugia mi convinsero a esibirmi con l’orchestra bolognese: una prova del fuoco tra Pupi Avati e Henghel Gualdi, il miglior clarinettista jazz d’Italia, con Paolo Conte al vibrafono. Superai il blocco e fu come un secondo battesimo”.
Prima del diploma al Conservatorio di Foggia, Arbore ebbe nel 2010 la soddisfazione della presidenza onoraria dell’Accademia italiana del clarinetto. Dilettante innamorato, “sfruculiato” sull’aspetto sentimentale dello strumento non si risparmia: “Ha un suono che viene direttamente dall’anima e nel registro basso è molto vicino alla voce umana come forse soltanto il violoncello, ma quando vuoi cinguettare puoi spaziare nell’aria pura del registro alto con una magia che è non a caso associata al pifferaio di Hamelin”.

Agostino Noviello, docente di clarinetto per quarantacinque anni, gli ultimi undici al Conservatorio napoletano di San Pietro a Majella, è più giovane di Arbore ma confessa di essersi prodotto anche lui in qualche serata per i militari americani in un night di via Medina ma “giusto per provare il jazz”. “Sono felice del diploma ad Arbore, perché ha contribuito alla diffusione di uno strumento oltre l’ambito classico, lirico e sinfonico. In più ho una ragione privata: il mio compianto allievo Beniamino Esposito fu un elemento di spicco dell’Orchestra Italiana”.

E’ curioso vedere che commenti positivi su YouTube a quell’esibizione sanremese ancora si succedano. “Allora devo confidarvi un segreto: da quando cominciai alla radio, con ‘Alto gradimento’, ho sempre pensato di fare cose che potessero essere udite o viste nel 2050. Perciò ho preferito i personaggi di fantasia che sono archetipi senza scadenza, evitando se possibile le imitazioni o la satira legata a figure che qualche anno dopo nessuno avrebbe ricordato. Abbiamo citato De Mita, ma oggi lui, o anche un D’Alema, quanti sanno chi è stato? E’ che la fantasia dura più della realtà e con internet ciascuno gode di un repertorio d’archivio tanto ricco che davvero il futuro è dietro le spalle, perché chi vuol proporre cose nuove può partire da basi straordinarie. Chi vuol far ridere, prima di guardare Lundini deve vedere il Sarchiapone di Walter Chiari. E questo vale pure per la musica. Vale per il clarinetto”.

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