Il dito medio di Galileo e l’iconografia pubblica dei suoi simili

"È questi il dito, onde la mano illustre / Del Ciel scorse segnando i spazi immensi / E nuovi astri additò, di vetro industre / Maraviglioso ordigno offrendo a’ sensi”. Questi versi, originariamente in latino, dell’astronomo settecentesco Tommaso Perelli, accompagnano oggi  l’esposizione del dito medio della mano destra di Galileo al Museo Galileo di Firenze. Il dito fu prelevato nel 1737, allorché la salma fu trasportata al sepolcro monumentale fatto erigere nella Basilica di Santa Croce per iniziativa del suo discepolo Vincenzo Viviani. Di Galileo furono conservate numerose altre reliquie, tra cui la quinta vertebra lombare, utilizzata tra l’altro per alcune diagnosi postume delle patologie da cui era affetto lo scienziato. Non si tratta tuttavia di mera morbosa curiosità collezionistica, ma di uno dei tanti esempi di un “culto” degli scienziati e delle loro reliquie che è legato a un più ampio cambiamento nell’immagine della scienza e dei suoi protagonisti avvenuto nel corso dell’Ottocento

In quel periodo, infatti, l’iconografia pubblica degli scienziati si sviluppa in coincidenza con l’affermazione della scienza sul piano sociale e istituzionale e con l’aspettativa emergente, nella società civile di numerosi paesi, di affiancare ai santi religiosi figure laiche di elevato valore simbolico; figure da celebrare sempre più frequentemente con biografie, ritratti e monumenti. Questa iconografia si appropria di numerosi stilemi ed elementi caratteristici dell’iconografia religiosa, li applica alle figure scientifiche e ne fa modelli di riferimento e simboli della nuova sensibilità secolare e del ruolo sempre più significativo della scienza sul piano sociale e culturale. Così, Frederic Harrison, allievo inglese del filosofo positivista francese Auguste Comte, compilò nel 1892 Il “Nuovo Calendario dei Grandi Uomini”. Nel mese dedicato alla scienza, a ogni giorno era associato il nome e la biografia di uno scienziato, così come come sui calendari si indica tradizionalmente il santo del giorno. Qualche anno prima il chimico francese Gaston Tissandier, fondatore della rivista di divulgazione La Nature, aveva offerto in un testo al grande pubblico una carrellata riccamente illustrata di “martiri della scienza” (1879). In questo periodo vengono realizzati anche numerosi monumenti e statue dedicate a scienziati. La statua del fisico e chimico britannico Michael Faraday, “riverito come un santo scientifico”, viene collocata dopo accese discussioni (si era valutato tra l’altro di collocarla all’abbazia di Westminster o alla cattedrale di St. Paul) “su un terreno già santificato dalla comunità scientifica”, ovvero l’atrio della Royal Institution dove si trova tuttora. Per l’Italia vanno ricordati tra gli altri i monumenti dedicati ad Alessandro Volta (1878) e Luigi Galvani (1879). 
Biografie e celebrazioni degli scienziati enfatizzavano spesso il carattere intellettuale e disincarnato, quasi ascetico, il distacco dalle necessità materiali e perfino dalla dimensione corporea. Ne sono un esempio le ultime immagini di Charles Darwin, dove tutto ciò che al pubblico resta da vedere è “una barba, il suo cappello, e gli occhi” o le immagini ricorrenti del suo studio ormai vuoto. “Darwin, come presenza fisica, era quasi scomparso” scrive la storica della scienza Janet Browne, “il suo intelletto appariva al pubblico in forma ormai quasi del tutto disincarnata”. Questo tipo di rappresentazione era indubbiamente influenzata anche dall’iconografia religiosa, che già contemplava un posto consolidato per il disinteresse per i piaceri alimentari e perfino per le “stupende astinenze”.

Innumerevoli i racconti e gli aneddoti che sottolineano l’indifferenza al cibo di Isaac Newton, che “lasciava i pranzi due ore ad attenderlo”, “mangiava spesso la cena fredda per colazione”, “faceva ingrassare il gatto con tutto il cibo che lasciava sul vassoio”. Non meno pittoresche, soprattutto nelle sue biografie popolari, le scene in cui il chimico e microbiologo Louis Pasteur prosegue imperterrito le proprie osservazioni al microscopio, totalmente incurante dei richiami sconsolati della moglie per il pranzo. In Italia, biografie come quella di Galileo, scritta dallo stesso Viviani, enfatizzavano le poche ore dedicate al sonno, l’indifferenza per le frequentazioni di corte e per ogni occasione di potenziale distrazione dal lavoro, delineando figure di “intellettuali asceti che riscattavano con la propria condotta integerrima la portata eterodossa del loro pensiero”. Assai frugale, molto tempo dopo, anche la dieta di Rita Levi-Montalcini, intervistata dal Corriere della Sera dopo aver ricevuto il premio Nobel: “Vivo di poco: la mia dieta è a base di riso bollito, pesce congelato e vegetali. Sto benissimo e tanto mi basta […] Ho brindato al Nobel con un brodo: un pasto frugale a base di brodo e riso poi una lunga dormita”.
Questo culto dello scienziato è ulteriormente rafforzato dalla percezione della fragilità del suo corpo fisico, soprattutto negli ultimi anni di vita. Ha un doppio corpo lo scienziato, come i sovrani studiati da Ernst Kantorowicz (I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, 1957; trad. it. Einaudi, 1989): uno naturale, fisico, mortale; l’altro consacrato e immortale, fissato dalle sue scoperte e dall’immaginario pubblico che vi è collegato. La grandezza di quest’ultimo è esaltata, come a compensarla, dalla debolezza del corpo fisico. Il mito di Pasteur si costruisce definitivamente nei suoi ultimi anni di vita; a un carattere che i suoi detrattori definivano “brutale e dispotico”, si sostituisce una figura fragile e degna di compassione. Ricorda un visitatore: “La gamba e il braccio sinistro, colpiti da apoplessia, sono un po’ rigidi, e trascina un piede proprio come un veterano ferito. Età, malattia, le pesanti fatiche di così tanti anni, l’asprezza del conflitto, l’intensa passione per il suo lavoro, e infine la prostrazione che segue il trionfo, si sono combinati insieme nel dargli un volto straordinario. Stanco, attraversato da profonde rughe, la pelle e la barba bianche […] la fronte ampia corrugata, attraversata dalle cicatrici del genio, la bocca colta leggermente da paralisi, ma piena di gentilezza, ancor più espressiva di pietà per la sofferenza di altri […] e sopra tutto, il pensiero vivo che ancora lampeggia dagli occhi sotto l’ombra profonda del sopracciglio – così Pasteur mi apparve: un conquistatore, che un giorno diventerà una leggenda, la cui gloria è incalcolabile come il bene che ha fatto”.

I funerali di Pasteur, il 5 ottobre 1895, costituirono un memorabile rito collettivo. Un corteo silenzioso sfilò dietro il carro fino alla cattedrale di Notre-Dame. Oltre al presidente e al ministro francese dell’Istruzione, da tutta Europa giunsero personalità politiche di spicco (dal granduca Costantino di Russia al principe Nicola dalla Grecia) per salutare, con funerali di stato, le esequie del grande scienziato. “Pasteur è eterno”, titolò un quotidiano. L’iconografia dopo la morte ritrae Pasteur con le muse ai suoi piedi o “come un salvatore con l’aureola intorno alla testa, talvolta fornito di ali, che invita i bambini a venire verso di lui”. Il corpo imbalsamato di Pasteur venne sepolto in un mausoleo all’Istituto Pasteur, descritto come un vero e proprio “santuario” dedicato alla sua figura e all’esposizione dei suoi oggetti personali e di lavoro. Fino a poco tempo fa, il personale dell’istituto si riuniva nel mausoleo due volte all’anno, nell’anniversario della nascita e della morte. Ricorda il premio Nobel François Jacob: “[…] si scendeva nella cripta in fila indiana, in silenzio, in ordine gerarchico: il direttore e la direzione; il consiglio; poi i capi di dipartimento […] i tecnici e gli assistenti; infine, le donne delle pulizie e i ragazzi di laboratorio. Ognuno scendeva lentamente gli scalini prima di passare di fronte alla tomba […] all’entrata, mosaici dipinti, alla maniera delle scene della vita di Cristo, quelle della vita di Pasteur: pecore al pascolo, polli intenti a beccare, campi di luppolo, alberi di gelso, vigne, a rappresentare la cura del carbonchio, del colera dei polli, delle malattie della birra, delle vigne, della seta. E in vetta, l’immagine suprema, la lotta di un bimbo con un cane rabbioso, per glorificare la battaglia più decisiva, quella contro la rabbia. Al centro, sui pennacchi della cupola, quattro angeli con le ali distese: tre a rappresentare le virtù teologali di Fede, Carità e Speranza; il quarto, in linea con lo scientismo di fine secolo, a rappresentare la Scienza”.
La testa e soprattutto il cervello degli scienziati sono comprensibilmente gli elementi su cui più spesso si è fissata l’attenzione. La testa dell’anatomista Antonio Scarpa è conservata nel Museo dell’Università di Pavia e segnalata come macabra “attrazione turistica” perfino su TripAdvisor. A Torino, al Museo di Anatomia dell’Università è conservato lo scheletro e il cervello del direttore del Gabinetto di Anatomia Carlo Giacomini, morto nel 1898 e lui stesso molto impegnato nella conservazione di cervelli. Fu lo stesso Giacomini a chiedere che le sue ossa restassero all’Istituto di Anatomia, “[…] dove ho trascorso gli anni più belli della mia gioventù e al quale ho dedicato ogni sforzo. Vorrei che il mio cervello sia conservato usando il mio metodo e collocato nel museo insieme agli altri”.

Uno degli esempi più celebri rimane però quello del cervello di Einstein. Il cervello del fisico fu asportato senza autorizzazione nel 1955 durante l’autopsia da Thomas Harvey, medico dell’ospedale di Princeton. I parenti e gli esecutori testamentari di Einstein lo vennero a sapere solo dopo che il corpo era stato cremato e le ceneri disperse secondo quanto disposto dallo scienziato. Il cervello fu lasciato al dottor Harvey, a condizione che lo condividesse con altri studiosi a soli scopi di ricerca scientifica. In seguito Harvey fu licenziato dall’ospedale per la sua inopinata iniziativa, sezionò il cervello del fisico in circa duecento “fettine”, restituendone alcune al medico personale dello scienziato. Altre le inviò a ricercatori desiderosi di studiare uno dei cervelli più celebri della storia. Gli studi pubblicati hanno variamente tentato di individuare in alcuni aspetti del cervello indizi materiali dello straordinario intelletto del suo possessore: dimensione del lobo parietale inferiore, densità di neuroni, giungendo a conclusioni spesso controverse. Le peripezie della parte residua del cervello sono raccontate nel libro del giornalista americano Michael Paterniti, A spasso con Mr. Albert. In giro per l’America con il cervello di Einstein (2000). Paterniti accompagnò nel 1997 l’ormai anziano Harvey nel tentativo di consegnare la parte residua del cervello alla nipote di Einstein, che non ne volle sapere. Oggi una speciale applicazione per smartphone rende accessibili circa trecento foto della materia cerebrale di Einstein.
Questa devozione postuma ad alcune figure scientifiche arriva fino ai nostri giorni, con la conservazione e la “venerazione” di alcuni oggetti a loro appartenuti o a loro collegati: strumenti di lavoro, oggetti privati, ritratti. Il Museo Nobel di Stoccolma ha inaugurato pochi mesi fa la mostra “These Things Changed the World” che espone oggetti appartenuti ai premiati: taccuini e appunti personali, strumenti di lavoro, il contenitore da cui Barry Marshall bevve una soluzione prelevata da un paziente per dimostrare, sperimentandolo su sé stesso, il ruolo del batterio Helicobacter pylori nelle patologie ulcerose (e ricevendo per questo il premio Nobel per la medicina nel 2005). Una reliquia di una sorta di “martirio scientifico” non inconsueto in ambito medico: altri premi Nobel, tra cui lo scopritore dell’insulina Frederick Banting, hanno dapprima sperimentato su sé stessi le proprie ipotesi.
Film, gadget e musica continuano a confermare la forte presa sull’immaginario collettivo di simili rappresentazioni. Come la canzone di Caparezza intitolata, per l’appunto, “Il dito medio di Galileo” (2011). “La cultura parrocchiale ha vedute corte ma tu vai forte / Fai passi da gigante oltre Coltrane / Sveli segreti più di Brokeback Mountain / E non si dica che non hai mosso un dito / Altro che dito, è dinamite / Tu vivrai, Galileo, come quel Galileo messo in croce prima di te”.

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