Aiuto, è tornato Techetechetè

È ricominciato “Techetechetè”, ed è subito ultimo giorno di scuola, serrande abbassate, “chiuso per ferie”, l’Italia in bianco e nero del “Sorpasso”, “Studio Uno”, “Canzonissima”. Un’Italia che esiste solo come saudade televisiva su Rai 1. L’iconico montaggione anticipa come al solito una marea di anticaglie, revival, avanzi di magazzino, repliche di fiction a breve spalmate in loop su tutto il palinsesto. Ci sarà la fiammata degli Europei. Poi il nulla. In questi dodici anni di “Techetechetè” che sembrano venticinque ho attraversato tutte le fasi della partecipazione spettatoriale, fino alle soglie dell’insopportabilità: “Che bell’idea!”, “finalmente fanno lavorare i montatori Rai”, “eh la televisione di una volta!”, “meglio le teche che i nuovi programmi”, “ormai è un rito”, “ma questa puntata non l’avevano già fatta?”, “ancora Mina no, vi prego, basta”.
 

I primi segni di fastidio sono arrivati con le puntate a forma di jukebox.  Una sfilata di canzoni tenute insieme da labili associazioni, via via sempre più pretestuose o cervellotiche. Più un omaggio alla Siae che alla memoria collettiva. Quando i montatori hanno cominciato a firmare le puntate, “written & directed by”, ecco poi tutta una deriva “arty” per accostare nomi, cose, città, come un “Blob” in salsa senile. La pretesa di raccontare con le teche “le trasformazioni della società”, il montaggio didattico, la dilatazione a quarantacinque minuti a puntata. Monografie che si intitolano “Angeli e demoni”, stacchi à la Eisenstein tra Padre Mariano, “Pregherò” di Celentano, il gospel di Edoardo Vianello, “O Mio Signore, in questo mondo, io non ho avuto tanto”. Ma la forza di “Techetechetè” è che intorno alla stessa gag, scenetta, canzone si possono costruire puntate infinite. E dal Vianello trascendentale a quello estivo, pinne, fucile e occhiali, o a quello con Wilma Goich, si tirano fuori sempre montaggi diversi. È come coi cataloghi delle piattaforme. Lo stesso film ripreso in più voci, per far sembrare il magazzino vastissimo. Mentre stai sul divano e scorri i titoli in cerca di un film da vedere, “Rocky” te lo ritrovi quattro volte: prima in “film con Sylvester Stallone”, poi in “film sportivi”; “imprese impossibili”; “classici americani”. Un’illusione ottica. Un grandangolo del repertorio. Con “Techetechetè” è lo stesso, ma col canone al posto dell’algoritmo.
 

I montaggi si dilatano in infinite combinazioni (forse già da anni “Techetechetè” lo fanno con l’IA, ma l’Usigrai non lo sa). Ecco la micidiale puntata sui “tormentoni estivi”, ogni estate riprogettata da vari ingressi, come in un’officina di letteratura potenziale: con Bruno Lauzi, senza Bruno Lauzi, prima Marcella Bella, poi Alan Sorrenti, Nico Fidenco, nel continente nero paraponziponzipò. Staccati, attaccati, legati a un granello di sabbia, come in un’allucinazione borgesiana, intrappolati in una biblioteca di Babele dei tormentoni estivi. Una cosa che piace a tutti, ma a me fa venire l’horror vacui. Da anni la celebrazione di “Techetechetè” mi sembra una plateale, euforica ammissione di morte delle idee. Non sappiamo più darvi nulla, se non il riciclaggio, l’archeologia, la malinconia della tv del passato, il sapore di un’epoca che non tornerà mai più. I fan di “Techetechetè” esaltano la “memoria intergenerazionale” del programma. Nonni, genitori, figli, tutti insieme sul divano davanti a Mina e Alberto Lupo, coi nonni che spiegano ai nipoti quant’erano belli “Studio Uno” e “Canzonissima”. D’accordo. Va bene. Ma a parte che nonni, genitori e nipoti staranno con lo smartphone in mano a farsi i fatti loro, dovrebbe comunque farci riflettere il fatto che una toppa del palinsesto sia da anni raccontata come uno dei programmi migliori della Rai. Una cosa che fa venire voglia di iscriversi ai futuristi, uccidere il chiaro di luna, reclamare “violenti getti di creazione e di azione”, quella roba lì.
 

La mia irritazione futurista, me ne rendo conto, non è un’argomentazione critica (però esiste anche una via futurista alla tv di repertorio, esiste “Paperissima Sprint”, che peraltro fa spesso più ascolti di “Techetechetè”, e con la sua follia slapstick dimostra che si può fare una tv di frammenti, avanzi, scampoli senza sbrodolarsi nella nostalgia). Penso comunque con sgomento all’idea di invecchiare con “Techetechetè”. Ritrovarmi davanti alla tv a rimpiangere quei bei Sanremo di una volta con Carlo Conti, la “Domenica In” di Mara Venier, gli “Affari tuoi” di Insinna, Pio e Amedeo su Rai 3. Quella sì che era televisione! Mica come oggi. Ah… i favolosi anni Venti, quando ci si voleva bene anche col Covid e la terza guerra mondiale alle porte e si lasciavano le password in giro perché ci si conosceva tutti. Qualsiasi cosa può, col micidiale ricatto della nostalgia, rivendicare prima o poi il diritto a essere rimpianta. Il “Techetechetè” di quest’anno s’intitola, “Ti ricordi la tv?”. È l’Armageddon, il D-Day di “Techetechetè”: quello per i 70 anni della Rai. Un tripudio. Un magma di ricordi che si autocelebrano. Le radici. L’identità. La storia. Ci sono anche le tende del sipario ai bordi dell’inquadratura. La sovrapposizione con la mitologia di “Carosello” è completa. Un “Techetechetè” quest’anno anche “ipertestuale”. Come spiega il produttore esecutivo Paola Moggioli, “utilizziamo una specie di pop-up, cioè una finestrella che si apre per aggiungere informazioni o spiegazioni collegate a quello che stiamo vedendo. Per esempio, in una puntata c’è il Quartetto Cetra che canta ‘Nella vecchia fattoria’ insieme con un quartetto inglese che ne canta la versione originale… sì, perché questa canzone nasce come ballata popolare inglese nel 1706. E questo lo raccontiamo nella finestrella che si apre sotto le immagini del Quartetto Cetra, appunto”. Impariamo con i ricordi, “Techetechetè” è il maestro Manzi della nostalgia.
 

Naturalmente non scopriamo nulla di nuovo. Da anni il segno dominante della tv è la nostalgia. L’unica certezza. Un affare sicuro, un business, l’algoritmo vincente quando ancora non c’erano gli algoritmi. “Le prime avvisaglie della sindrome risalgono agli anni Ottanta”, scriveva ormai una quindicina d’anni fa Simon Reynolds nel fondamentale “Retromania”, agile saggetto sociologico sulla nostra ossessione per il passato, soprattutto nella musica, ma in generale nella cultura pop, favorita certo da una straordinaria e senza precedenti accessibilità agli archivi di qualsiasi tipo. Ma in tv si esagera. Con “l’effetto rassicurante della reiterazione e della ripetizione” ci andiamo giù pesante. La nostalgia è diventata irritante e ridondante anche perché a essere “nostalgico” è ormai l’atto stesso di guardare la televisione. Un gesto da repertorio, come andare al cinema. La deriva nostalgica della televisione, già fluviale e inarrestabile ai tempi del “karaoke dall’oltretomba” di Paolo Limiti (copyright Aldo Grasso) e di “Anima Mia” di Fazio-Baglioni, è diventata ormai il paradigma di riferimento del nostro entertainment. Agisce in profondità. Determina la logica produttiva della tv e del rapporto con il pubblico. Le ragioni sono molte. C’è l’analisi costi-benefici, ovviamente, il basso costo dei programmi di montaggio fatti con scampoli di repertorio. C’è il fattore anagrafico. Più gli spettatori invecchiano, più il ricambio generazionale è scarso, più si pesca negli archivi, si tirano fuori le foto in bianco e nero, l’album dei ricordi, e vai di “Migliori anni” e “Tale e Quale” e Arene Suzuki. Ma l’egemonia del revival contamina tutto. Anche quelli che dovrebbero essere i cosiddetti nuovi show. “Boomerissima” è “un tuffo nel passato dal sapore della nostalgia che ripercorre un periodo compreso tra gli anni Settanta e il 2000 raccontando e confrontando usi, costumi, mode e tendenze” (e un altro segno dell’egemonia nostalgica è la quantità smodata di “tuffo nel passato” usati nei pressbook dei programmi tv, peggio che “nella splendida cornice di/a soli due passi da” negli annunci immobiliari). Il fatto è che i nuovi show sembrano di proposito progettati per far rimpiangere quelli vecchi, come in una diffusa, segreta “operazione Techetechetè”. “L’acchiappatalenti”, con Milly Carlucci, appena andato in onda su Rai 1, ha secondo Aldo Grasso un solo difetto: “Non è in bianco e nero. Manca anche ‘l’applausometro’. Altrimenti potremmo pensare senza sensi di colpa che sia un fondo di magazzino, un vecchio varietà registrato ai tempi di Carlo Codega e mai mandato in onda, un po’ per la vergogna, un po’ perché c’era di meglio”.
 

Poi c’è l’altro campo, vastissimo anche questo, di remake, reprise, reunion, grandi ritorni non richiesti. Torna un po’ tutto: “La corrida” di Carlo Conti, “Portobello” di Antonella Clerici, “La ruota della fortuna” con Gerry Scotti, il micidiale “Rischiatutto” di Fazio, suprema negazione dei tempi televisivi del game-show e sbrodolata nostalgico-mortuaria. La nostalgia, si sa, è però il suo terreno, suo di Fazio. Gli va dato atto di essere riuscito a suo tempo, con “Anima mia”, a trasformare un sentimento che in politica è sempre stato reazionario in uno smagliante canone progressista. Non a caso, Fazio pescava proprio nei ricordi dei tumultuosi anni Settanta, mettendo in gioco un meccanismo estendibile dal pop al bilancio politico-generazionale (“belle le grandi lotte operaie, struggenti i picchetti all’alba e il Marcuse sul comodino”, scriveva Edmondo Berselli, “ma ciò che in questo momento mi fa venire le lacrime agli occhi è il ricordo di un innamoramento fallito per un disguido a Viareggio sulle note di ‘Fiori rosa, fiori di pesco’”). Ecco allora i nuovi “nostalgici” pop, non più in camicia nera, ma col Subbuteo, Orietta Berti, i Cugini di campagna. Da noi la nostalgia detta legge anche quando ci si ritaglia il ruolo del visionario-traghettatore lanciato verso il futuro. Anche Renzi nelle sue Leopolde, con gli iPhone, Twitter, il trip della Silicon Valley, dai e dai piazzava sul palco il modernariato hipster, e quindi moto d’epoca, poltrone di pelle anni Settanta, tavolini vintage, un’altalena e persino un corbezzolo, “l’albero patrio caro a Pascoli, con foglie verdi, fiori bianchi e bacche rosse”, simbolo del fanciullino-rottamatore.
 

Il successo di “Anima mia” spianò anche la strada alla progressiva riscoperta di Sanremo da parte di un pubblico giovane e progressista che sin lì l’aveva largamente snobbato, da sempre infastidito da tutto quel piccolo mondo antico canterino. Sanremo sarebbe diventato la roccaforte dell’egemonia culturale non della sinistra, come dice Libero, ma della nostalgia, dando a tutti, ma proprio tutti una seconda chance. Tranne che ai Jalisse.
 

Tutta la televisione è ormai votata al culto del revival, ma mai come su Rai 1. A “Domenica In”, in modo sistematico, più o meno ad ogni puntata, si mandano in onda e si commentano brani da vecchie puntate di “Domenica In”, in una micidiale mise en abyme della nostalgia. Durante un’intervista capita spesso che Mara Venier faccia vedere brani di repertorio con una vecchia (cioè giovane) Mara Venier che in una vecchia puntata di “Domenica In” intervistava lo stesso ospite, per poi commentare insieme il tempo che passa, i chili in più, i capelli in meno, eccetera. Del resto, quando nel 2018 tornò per l’ennesima volta, dopo molti anni, alla conduzione del programma, il suo debutto fu salutato come una “splendida operazione nostalgia” (e dai). Un “tuffo nel passato, dai continui ricordi di persone che non ci sono più fino alla scelta degli ospiti, come Romina Power”. Si capisce che affidare Sanremo di nuovo a Carlo Conti, un “impiegato della nostalgia” (come già lo chiamava Grasso una quindicina d’anni fa), era a questo punto una scelta obbligata. Vogliamo essere rassicurati, vogliamo la ripetizione dell’identico, il revival, le teche viventi. Vogliamo sentirci vecchi perché da vecchi questo paese diventa bellissimo e ricco di opportunità. A Sanremo torna la divisione tra “nuove proposte” e “big”. Torna anche il “Dopofestival”, forse affidato a Alessandro Cattelan, il nostro “giovane presentatore” che nel frattempo sta per compiere 45 anni, quattro in meno di Jimmy Fallon. È più facile mandare al Parlamento europeo uno YouTuber di 24 anni (il cipriota Fidias Panayiotou), che presentare Sanremo prima dei 45. Ma tra una quindicina d’anni, con un po’ di nostalgia addosso, forse anche Cattelan sarà pronto per il Festival. E per “Techetechetè”.

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