Riconciliare famiglia e lavoro, oggi contrapposti. Ne va dell’essenza umana

Ripensare il lavoro come una “dimensione altra” dalla mera autoaffermazione narcisistica. Affinché in futuro la qualità della vita dipenda principalmente dalle risorse “umane” che ciascuno di noi sarà in grado di mettere in campo

La serenità o, se si vuole, la qualità della nostra vita dipende in gran parte da due fattori: la famiglia e il lavoro. Eppure pressoché da sempre questi due fattori hanno faticato non poco a far valere la loro importanza e l’utilità della loro armonizzazione.

Nel mondo greco, ad esempio, il lavoro è confinato nell’ambito dell’oìkos, la famiglia, l’economia domestica, cioè il regno dei servi e delle donne. Due dimensioni, famiglia e lavoro, legate entrambe all’ambito della mera vita biologica dell’uomo: l’una, la famiglia, serve alla riproduzione della specie umana; l’altra, il lavoro, serve a procurare il necessario per vivere e sopravvivere. Entrambe indicano comunque qualcosa di “inferiore”, qualcosa di funzionale e di subordinato alla vita della polis, alle attività considerate umanamente più alte: la politica e la filosofia.



L’epoca moderna sancisce invece una sempre più marcata differenziazione tra famiglia e lavoro, nonché un’esaltazione mai vista di quest’ultimo, considerato non soltanto come la fonte di ogni proprietà e di ogni ricchezza, ma addirittura, come “l’essenza che si avvera dell’uomo”. L’espressione è di Marx, ma anche Hegel sarebbe stato d’accordo. Con l’industrializzazione il lavoro viene portato fuori della sfera familiare. La famiglia non esprime più un luogo di produzione economica ma soltanto un “focolare domestico” attorno al quale stanno la madre e i figli, mentre il padre è “fuori” a lavorare per provvedere al loro sostentamento. Siamo insomma alla cosiddetta famiglia borghese. A questo tipo di famiglia, sia detto con chiarezza, il mondo occidentale deve gran parte della sua fortuna non soltanto economica, che però va in crisi nel momento in cui l’ethos del lavoro e del sacrificio che lo contraddistingueva lascia il posto al culto narcisistico dell’autorealizzazione, lasciando esplodere in forma eclatante la drammatica tensione tra famiglia e lavoro. Originariamente uniti in una concezione che li degrada entrambi, nel momento in cui sembra che il lavoro debba diventare il vero strumento per l’autorealizzazione degli uomini e delle donne, succede che famiglia e lavoro si ritrovano come due ambiti quasi antitetici; dove c’è l’uno sembra che non ci sia più posto per l’altro.

Non mi dilungherò sulle innumerevoli analisi che sono state fatte e che vengono fatte tuttora di questo fenomeno, legato per lo più all’individualizzazione e all’ingresso delle donne nel mondo del lavoro. Mi limito soltanto a osservare che proprio da qui occorrerebbe partire per una considerazione nuova sia della famiglia, sia del lavoro, che sappia vedere in entrambi non una dimensione “inferiore” dell’umano, né un luogo di mera produzione di beni materiali o di egoistica autoaffermazione, ma la concreta articolazione di ciò che è “umano” per eccellenza. L’uomo come animale razionale, certo, ma anche come animale famigliare che lavora.


Senza alcuna nostalgia per il mondo di ieri o per le belle famiglie di una volta, che spesso belle non erano affatto (soprattutto le donne ne sanno qualcosa), vediamo profilarsi all’orizzonte due compiti culturalmente decisivi. Da un lato, occorre rivalutare la famiglia come luogo in cui si costruiscono relazioni improntate alla reciprocità e al bene di tutta la persona, nella convinzione che la società non può fare a meno delle risorse che in tal senso soltanto una famiglia può produrre. Penso alla fiducia, alla solidarietà, al senso di responsabilità, solo per dirne alcune.



Dall’altro lato, occorre operare una “umanizzazione” del lavoro, di qualsiasi lavoro, che lo tragga fuori dalle secche di un’attività meramente strumentale e lo esalti invece come uno dei luoghi in cui l’uomo realizza la propria essenza. E poiché non è pensabile che questo avvenga contro la famiglia, uno dei compiti più urgenti che abbiamo di fronte è quello di operare una riconciliazione tra famiglia e lavoro, quali ambiti privilegiati di realizzazione dell’“umano”, con la consapevolezza che tutto questo non va perseguito paternalisticamente o moralisticamente dall’alto, bensì facendo leva sulla libertà, la creatività e la responsabilità dei singoli individui: lavoratori e imprenditori.

La nostra società, lo sappiamo tutti, va facendosi a tutti i livelli sempre più differenziata e complessa. Per alcuni ciò significa un cambio epocale destinato a confinare ciò che è “umano” sempre più ai margini, se non addirittura fuori, del sistema sociale. Quanto al lavoro, sono in molti a pensare che saranno tecnologia e intelligenza artificiale a farsene carico, rendendoci addirittura superflui in quanto lavoratori. Eppure credo che proprio in questo tipo di società la qualità della nostra vita dipenderà principalmente dalle risorse “umane” che ciascuno di noi sarà in grado di mettere in campo. Non possiamo sapere come sarà il lavoro domani. Potrebbe anche succedere che saremo liberati da quello che un tempo si chiamava il lavoro necessario. Ma rimarrà pur sempre il problema di dare un senso umano alla gran quantità di tempo che avremo a disposizione, e rimarrà il dovere di far bene ciò che saremo chiamati a fare ogni giorno per noi e per gli altri. Per tutto questo serve un ethos che ha bisogno fondamentalmente di famiglia e di educazione. Altrimenti, come aveva paventato Hannah Arendt, realizzata l’utopia della liberazione dal lavoro necessario, potremmo ritrovarci in un mondo distopico di uomini disperati perché non sanno più come occupare il loro tempo.

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