L’Europeo è soltanto l’inizio della cura Spalletti

C’è chi si coccola Mbappé, chi ripone le proprie speranze in Bellingham e Kane, chi ha gli occhi lucidi per le giocate del giovanissimo Yamal, chi punta sul fattore campo e sulla last dance di Kroos in compagnia dei rampanti Musiala e Wirtz. Poi, un passo indietro, ci siamo noi, campioni in carica ma senza l’entusiasmo che questa veste dovrebbe comportare: sono passati tre anni dalla notte di Wembley, sembra un’era geologica fa. Da quell’Europeo vissuto con le mascherine indossate a intermittenza, in giro per un continente ancora sotto choc per il Covid, cosa si porta dietro questa Italia? Nemmeno le mani di Gigio Donnarumma sembrano grandi come nel 2021 e c’è chi pagherebbe di tasca propria per vedere tra i pali Vicario. Abbiamo perso Bonucci e Chiellini, Spinazzola e Verratti, Insigne e il vituperato Immobile. E a rileggere i nomi di tutti quelli che scesero in campo a Wembley, la lista si ingrossa fino a far pensare che da quella finale, di anni, ne siano passati dieci: Belotti, Locatelli, Berardi, Bernardeschi, Florenzi, Emerson Palmieri, tutti tagliati fuori, chi per un motivo, chi per un altro. Anche per questo, mentre gli altri guardano le loro stelle, a noi non resta che lo sguardo sedizioso di Luciano Spalletti: le speranze di un altro ribaltone dell’ordine costituito in grado di portarci sul tetto d’Europa passano tutte da lui e dalle sue doti di taumaturgo del pallone.
 

Ma l’Europeo tedesco non sarà che una tappa del percorso del nostro commissario tecnico, e questo è opportuno metterlo in chiaro da subito. Se anche dovesse andare male, l’orizzonte di questo ciclo è più lontano, è orientato sul Mondiale del 2026: arrivati in Nord America, saranno passati vent’anni dall’ultima partita a eliminazione diretta giocata dalla Nazionale in una Coppa del Mondo, quel Francia-Italia che ci regalò il quarto titolo iridato. Spalletti ha raccolto un’eredità scomodissima, un incarico se possibile più complicato di quello che affrontò Mancini dopo le macerie post-Svezia: da un lato il peso del successo all’Europeo, dall’altro la mazzata della seconda qualificazione mondiale mancata con un tracollo impronosticabile, quando il pass per il Qatar era stato, per due volte, a un rigore di distanza, nei match con la Svizzera. A condire il tutto, a pesare su Spalletti c’è anche il fatto di essere arrivato in corsa, dopo uno strappo maturato a Ferragosto quando un paese intero, non solo la Figc, aveva ben altro in testa. A un certo punto, persino arrivare a qualificarsi per l’Europeo sembrava un’impresa: ricordiamocelo, oggi che ci siamo, per cercare di dosare i giudizi al termine dell’avventura.
 

Non sappiamo ancora che faccia avrà, l’Italia che si affaccia in Germania sapendo di dover schivare le insidie di un girone velenoso. L’apertura con l’Albania nasconde il peso dell’aspettativa: è la partita da non sbagliare. Gli Azzurri sono parsi imballati nei due test che hanno preparato il terreno per l’Europeo, hanno cercato di districarsi tra sistemi di gioco diversi, ma principi affini: il controllo del pallone come stella polare, forse l’unico vero punto di contatto con quella che era stata l’Italia di Mancini. Ma quella squadra era arrivata all’Europeo forte di certezze granitiche, di un percorso costruito pazientemente negli anni precedenti, con tanto del bonus provocato dal rinvio di un anno del torneo causa Covid. Questa, invece, si deve gettare nel fuoco avendo un vissuto brevissimo con il ct, solo dieci partite: l’ultima ufficiale risale a novembre, uno 0-0 agonico contro l’Ucraina con lo spettro dei playoff dietro l’angolo, il fiato sospeso per un falletto da rigore di Cristante all’ultimo respiro, la qualificazione che arriva e viene vissuta più come un sospiro di sollievo che come una gioia da festeggiare.
 

La stella azzurra non è in campo, ma in panchina. Spalletti affronta quella che sembra essere la sfida più complessa della sua carriera con un paese aggrappato alle sue idee: gli altri hanno i campioni, noi un collettivo che dovrà cercare di colmare il gap con l’organizzazione, in uno scenario che richiama da vicino l’Europeo del 2016, quando in panchina c’era Conte e in campo una squadra che viaggiava al ritmo del respiro del suo ct pur circondata da uno scetticismo palpabile. Da settimane, l’allenatore preme costantemente sugli stessi tasti: l’energia da mettere in ogni secondo delle partite, una continuità tecnica che ancora manca, una personalità da coltivare e da ingigantire per osmosi, come spiega la convocazione a Coverciano dei numeri dieci che hanno fatto la storia del nostro calcio. Immaginare di vedere in Germania una riedizione del Napoli scudettato non è soltanto utopia, ma persino qualcosa di ingeneroso nei confronti del ct: l’Italia sarà qualcosa di diverso, nella speranza che possa anche solo avvicinare quei picchi di bellezza. È lui il primo a sentire la mancanza di partite che pesano: “Siamo convinti di avere una buona squadra, ma dovremo entrare nel clima delle gare vere”, ha detto dopo la Bosnia, sapendo che c’è ancora tanto da migliorare e poco tempo per farlo, perché gli ostacoli da affrontare saranno dannatamente complicati.
 

È un paradosso per uno come lui, abituato ai tempi lenti, nel calcio e quando lavora la terra: le idee di Spalletti hanno bisogno di tempo per attecchire, devono insinuarsi nella mente dei giocatori fino a diventare un processo da ripetere in maniera automatica. Stavolta non ci sarà margine per la pazienza. Ma se abbiamo imparato a conoscere il tecnico di Certaldo, ad animarlo in questa fase sarà soprattutto l’adrenalina: tre partite in cui dare tutto, poi si vedrà. Chiederà il salto di qualità a Scamacca e Pellegrini, difenderà allo stremo la chiamata di Fagioli, cercherà di riaccendere Chiesa come tre anni fa, metterà insieme tanti pezzi abituati a funzionare nelle rispettive squadre di club nel tentativo di avere, come risultato finale, un quadro definito. Il suo lavoro è appena cominciato.

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