Il fiume e la colpa

Lei lo ha ucciso, ma è innocente. Il nuovo romanzo di Maria Grazia Calandrone “Magnifico e tremendo stava l’amore” (Einaudi), parte da un fatto realmente accaduto e costruisce una storia che ci interroga su cosa siano l’amore, la violenza, l’autodeterminazione, l’innocenza

Lei lo ha ucciso, ma è innocente. In queste sette parole, nella loro apparente contraddizione, sta il senso della storia di Luciana. Ha assassinato, ma per i giudici non è colpevole. E per noi?



Il romanzo di Maria Grazia Calandrone, Magnifico e tremendo stava l’amore (Einaudi) parte da un fatto realmente accaduto – che ha avuto come protagonisti Luciana Cristallo e Domenico Bruno, padre dei suoi quattro figli – e costruisce una storia che ci interroga su cosa siano l’amore, la violenza, l’autodeterminazione, l’innocenza e la colpa. Alterna storia personale della protagonista e brevi inserti sulla storia d’Italia.



Bella ragazza, giovanissima, Luciana incontra Domenico. E’ estate. Lui è più grande, affascinate, magnetico, sicuro di sé. Lei è una ragazzina e si perde in quel magnetismo e quella sicurezza. In poco tempo lascia la scuola e si sposa.



Ma già il giorno dopo il matrimonio capisce di aver fatto un errore perché Domenico la relega in casa, la lascia sola, la costringe a vivere con gli anziani genitori di lui, e poi nel tempo la tradisce, la umilia, la picchia.



In tutto questo dolore e sopraffazione nascono quattro figli. In tutto questo dolore Luciana acquista consapevolezza, tenta più volte di allontanarsi, si separa, si innamora di un altro uomo che la ricambia, va a vivere in un piccolo appartamento portando con sé tre dei quattro ragazzini (Massimiliano, decide di restare a fianco al padre).



Ma il marito la tormenta, la minaccia. E una sera accade. “Il ceffone che Domenico assesta a Luciana è l’inizio del dramma” scrive Calandrone. Luciana scatta in piedi, tenta di fuggire, lui la agguanta, la prende per i capelli, la tira a sé. “E abbiamo cominciato questa assurda danza che in pochi istanti ha travolto tutto”. Come in C’è ancora domani di Paola Cortellesi la violenza diventa un ballo macabro, come nei film di Chaplin – la danza dei panini ne L’età dell’oro – il tragico è sublimato in una danza.


Nella realtà che non sublima nulla, nelle fredde cronache e verbali giudiziari, Luciana affonda il coltello dodici volte in quel corpo che ha perfino amato. E’ il 27 gennaio 2004. Poi, assieme al nuovo compagno, Luciana pulisce il sangue e si libera del cadavere. E per un anno non ne parleranno, fingeranno con tutti e anche con loro stessi che non sia accaduto nulla, andranno avanti con la loro storia d’amore, con le loro vite, con i figli. Infine, quando una intercettazione li incastrerà, confesseranno.



Ora che sapete qual è la storia di Luciana chiediamocelo di nuovo: è innocente? È colpevole?


Luciana ha ucciso, ha confessato, ma durante il processo viene stabilito che ha agito per legittima difesa. La sentenza è limpida e viene confermata in secondo grado. È anche rivoluzionaria. Quando il pubblico ministero le chiede perché dopo aver ucciso Domenico non abbia immediatamente chiamato la polizia, visto che aveva il naso sanguinante e segni evidenti, su collo e braccia, dell’aggressione lei risponde “Non ho pensato di chiamare la polizia perché la polizia non mi ha mai aiutato”. Ancora a gennaio 2024 secondo una ricerca di Telefono rosa molte donne dicono che non denunciano per il timore di non essere credute.



Al centro di questa storia c’è poi un fiume, il Tevere, dove Luciana fa scivolare il corpo morto del marito, dove la madre dell’autrice ha fatto scivolare se stessa.


È una suggestione che la scrittrice non lascia cadere (“Io che c’entro? Perchè questa storia mi chiede da anni di essere scritta? Chi conosce la mia biografia può intuirlo”).



Un omicidio da una parte e un suicidio dall’altra, due donne che si affidano all’acqua per dire chi sono, che cosa vogliono, che cosa non vogliono più.

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