Il figlio più osceno della cancel culture

L’essenza della creazione artistica risiede nel dolore e nel trauma, componenti che la cancel culture e i safe spaces tentano di eliminare, minacciando la creatività stessa

Se non si può più soffrire non si può più scrivere, creare artisticamente. Non è forse vero che al centro di ogni grande storia vi è un dolore, una ferita, ossia una lacerazione di cui la scrittura (letteraria, musicale, pittorica) è narrazione e tentativo di ricomposizione?

Al cuore della cancel culture e dell’ideologia dei safe spaces che dominano sempre più in alcuni dei nuclei di quella che è (era?) la cultura occidentale, e che s’impongono nelle nostre teste, vi è ovviamente l’idea di cancellare o di scheramarsi da tutto ciò che costituisce un trauma. Il trauma può venire dalla storia passata, che va appunto cancellata o editata. Oppure può venire dalla vita quotidiana (con i suoi incontri, confronti e scontri), che va quindi schermata. In questo meccanismo si annida forse la più grande minaccia che la potenza creativa umana abbia mai affrontato perché vi è il tentativo di annullare l’esperienza stessa che sta alla base della capacità di creare, ovvero l’urto con il mondo. Il trauma che è tutt’uno con il vivere.

Notoriamente per Aristotele il principio del filosofare stava nel thauma, che si potrebbe pensare sia lo “stupore” per il fatto che ci sia qualcosa invece che il nulla. Ma questo termine non denotava una “meraviglia positiva”, bensì aveva una connotazione profondamente perturbante. Aveva infatti a che fare con il fatto di sapersi mortali, di sapere la provvisorietà dell’esistenza. È da questa angoscia stupita che nasce l’elaborazione del pensiero, dalla necessità di elaborare un modo di venire a patti, attraverso la ragione e il linguaggio, con tutto ciò. L’uomo, infatti, non è soltanto l’unico animale che muore (che sa di essere morente) ma è anche l’unico animale che parla, e attraverso la parola pensa e crea. La triade morte-linguaggio-pensiero costituisce il nucleo della nostra esperienza del mondo e la spinta principale a creare, a fare.

Il trauma è anche il modo in cui l’uomo si relaziona con il mondo. Attraverso il suo “fare” l’uomo interviene sul mondo, lo cambia, lo muta, e quindi lo “traumatizza”. Questo fare, per i Greci, si ricollega appunto alla creazione, a quella parola, “poesia”, che sebbene spesso trattata come il massimo dell’astrattezza letteraria ha la sua radice nella parola poiesis, che esprime il fare creativo: mettere al mondo qualcosa che prima non c’era. Quella cosa diviene a sua volta “mondo” e quindi diviene capace di “traumatizzare” gli uomini che la vedono, l’ascoltano, la leggono.

Se è vero che le grandi creazioni artistiche derivano da profondità abissali che l’artista trova nella propria interiorità è pur vero che quella interiorità è tratta fuori e messa su pagina, su tela o in musica proprio dall’incontro con il mondo. Il safe space (soluzione al problema del trauma che è la vita stessa), e figlio più osceno della cancel culture, è invece per sua costituzione una recinzione elevata attorno alle inquietudini del mondo e dell’interiorità. È quindi uno sprofondarsi nell’interiorità, nella pappa del cuore, come la chiamava qualcuno, in uno stagno pieno d’ombre e di fantasmi dove si ha paura persino di quell’ombra che così diveniamo.

Ogni storia, però, ha a che fare ovviamente con una qualche forma di contrasto da cui derivano rotture e tentativi di ricomposizione. Ogni storia ha quindi a che fare con un trauma che deve essere in qualche modo riconosciuto, superato o celebrato, eventualmente combattuto o accettato. Voler cancellare il trauma significa distruggere ogni storia. Significa l’introduzione di un regno del bene in cui non vi possono essere più perdono, né remissione dei peccati, né riconciliazione perché il negativo sarà stato reso impossibile, e così anche l’esistenza dell’uomo, che non è altro che una storia. Ecco perché la “buffa” ideologia dei safe spaces deve suscitare orrore e apparirci come un mortale nemico.

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