Appunti per Le Pen: analogie tra la Francia di oggi e di novanta anni fa

Nel 1934 sembrava che la Francia stesse per essere travolta dalle destre. Alle successive elezioni politiche prevalse invece il Fronte popolare, una coalizione tra sinistre e centristi. Grazie anche al sistema elettorale a doppio turno, collegio per collegio. Che è in sostanza quello tuttora vigente. La destra godeva di grande consenso. L’opinione pubblica era inferocita contro l’establishment. Era stufa della pressione fiscale. Non era scontato da che parte andasse a sfociare il malcontento. Andare e rivedere quello che successe negli anni 30 potrebbe aiutare a comprendere quello che a prima vista appare l’azzardo – coup de poker, pari extrême, scommessa estrema, da apprentis sorciers, da apprendisti stregoni, dicono i giornali francesi – di Emmanuel Macron. 

Parigi, 6 febbraio 1934. Una grande manifestazione, sfociata in Place de la Concorde, cerca di attraversare il ponte per dare l’assalto all’Assemblea nazionale, sulla riva opposta. E’ in corso la votazione sulla fiducia al governo del radical-socialista Édouard Daladier. La polizia spara per bloccarli. Ci sono decine di morti e feriti. Daladier si dimette, benché la fiducia l’avesse ottenuta. Alla manifestazione prendevano parte tutti i gruppi e le associazioni di destra e di estrema destra. E anche qualche associazione di sinistra. I comunisti avevano discusso a lungo se partecipare o no, per non lasciare il campo alla sola collera di destra. Fu la madre di tutti i jours de la colère. Fino ai gilets jaunes, alla rivolta per tenere la pensione a 60 anni, anziché portarla a 62, alle montagne di concime scaricate dai trattori sui Champs Élysées. Le parole d’ordine sono: “Via il governo di corrotti!”, “Niente più deputati!”, “Sciogliere il Parlamento!”, “Abbasso i ladri!”, “Via gli ebrei, via gli stranieri!”, “Al diavolo le tasse!”. E soprattutto: “La France aux Français”, la Francia ai francesi. Non un cenno alla minaccia fascista, al pericolo rappresentato dalla Germania dove, dal gennaio dell’anno prima, al governo c’è Hitler
Suona familiare? Con gli ebrei la destra francese ce l’aveva da sempre. Gli immigrati sono i profughi dall’est (soprattutto ebrei), e gli italiani che “rubano lavoro” (nel sud della Francia li linciavano), ma anche i fuorusciti dall’Italia fascista, cui si aggiungeranno quelli dalla Germania nazista. Antiparlamentarismo, ostilità alla democrazia e alla politica corrotta, sono temi tradizionali. Sin dall’Ottocento ne straripa la grande letteratura francese, da Balzac e Zola. Mezza Francia è ancora convinta che il capitano Dreyfus fosse comunque un traditore. E’ fresco l’affaire Stavisky, la faccenda dell’affarista ebreo, immigrato dall’Ucraina, che corrompeva i politici. I giornali, soprattutto quelli di destra, da mesi non parlano d’altro. La grande crisi, importata dall’America, ha esacerbato gli animi. Tutti ce l’hanno con parlamenti e deputati. Non solo in Francia. E’ sull’onda di rigetto della democrazia e della Costituzione di Weimar che ha appena vinto Hitler. 

E’ il collante delle Leghe (sì così si chiamavano) che hanno organizzato la protesta del 6 febbraio. Lo storico Zeev Sternhell avrebbe definito quell’amalgama “laboratorio del fascismo”. Ma non sono fascisti. Anche se molti dei dirigenti poi aderiranno al governo di Vichy sotto tutela nazista. E’ un impasto multiforme. Ci sono i “nazionalisti integrali”, i nostalgici monarchici e antisemiti viscerali dell’Action française, con un quotidiano che vende 200.000 copie. Ci sono i Croix de feu, l’associazione combattentistica, di “nazionalisti cristiani”, guidata dal colonnello François de la Rocque, un milione di aderenti. Ci sono i “centristi” moderati dell’Alliance démocratique di Pierre-Etienne Flandin e i centristi assai più a destra del Centre républicain di André Tardieu. C’è Solidarité Française, il partito creato dall’industriale François Coty, proprietario del Figaro. C’è l’attivissima Federazione nazionale dei contribuenti. C’è pure una costola della sinistra, che fa capo al populista Jacques Doriot. Capopopolo nato, gran arringatore di folle, Doriot è appena stato espulso dal Partito comunista francese. Era stato deputato e sindaco di Saint Denis, la banlieue rossa e operaia di Parigi. Stava addirittura per diventare lui segretario del Pcf al posto di Thorez. Poi fece una pessima fine. Da collaborazionista dei nazisti. Morì in Germania, dopo aver creato una Legione dei Volontari francesi contro il bolscevismo, per combattere a fianco dei tedeschi. 
Fatto sta che tutta quella galassia non quagliò, come sembrava ineluttabile, in un fascismo alla francese. Al contrario, finì inaspettatamente col quagliare una coalizione di centrosinistra, altrettanto composita. Nel 1936 alle urne avrebbe prevalso il Fronte popolare. Riuniva forze disomogenee, fino a poco prima in cagnesco o in concorrenza: i Radicali, i socialdemocratici di Léon Blum, e il Pcf (che però non sarebbe entrato a far parte del governo). Durò poco. Non va mai sottovalutato il cupio dissolvi. Ma diede vita ad una delle stagioni più esaltanti del movimento dei lavoratori e della sinistra nella storia europea. Con conquiste durature, tipo i contratti nazionali, la settimana di 40 ore, i diritti dei lavoratori nelle fabbriche, le ferie pagate. Spirava un’aria nuova progressista, di libertà, anche nella vita quotidiana. Per la prima volta entrarono al governo ministri donna, anche se le donne francesi non avevano ancora diritto di voto, né di essere elette. Soprattutto fu un modello di unità delle sinistre, alternativa e concorrenziale all’unità delle destre. 

Tra i punti deboli: la rissosità ereditaria tra le sinistre, l’incapacità di dare una risposta alla crisi economica, l’incapacità di rispondere alle ansie e alle richieste del ceto medio, degli agricoltori, dei bottegai, dei commercianti, la timidezza nel modificare le politiche restrittive e dure nei confronti degli immigrati e dei rifugiati politici, e i tentennamenti in politica estera. Il governo Blum rifiutò di dare aiuto, o anche solo armi per difendersi, alla Repubblica spagnola. Andò dietro ai pacifisti senza se e senza ma. Forse non voleva rompere col Regno Unito, governato dai conservatori, che propugnavano la “non ingerenza” in una guerra che pensavano non li riguardasse. O forse non osavano mettersi contro Hitler che aiutava, con un intervento diretto, i golpisti di Franco. 
Può sembrare un controsenso. Ma il collante della coalizione di Fronte popolare non era l’antifascismo. Così come il collante della potenziale coalizione di destra non era il fascismo. Era semmai il disprezzo per una classe politica ritenuta irrimediabilmente corrotta, l’anti-parlamentarismo, l’anti-politica, la diffidenza nei confronti degli intellettuali impegnati (nel suo La trahison des clercs, del 1927, Julien Benda aveva denunciato il tradimento degli intellettuali che avevano abbandonato il loro mestiere per entrare nell’arena delle passioni politiche). Sulla paura del fascismo prevalevano altre paure: la paura della “rivoluzione” (dal 1789 la Francia ne aveva avute sin troppe), la paura del caos, la paura della sovversione internazionale comunista, la paura dei diversi (ebrei, immigrati, gli omosessuali non venivano nemmeno presi in considerazione), la paura della modernità, la paura che venissero messi in discussione i privilegi acquisiti di questa o quella corporazione. 
Sembrerà strano, ma anche in seno alle sinistre di allora “fascismo” e “antifascismo” non erano i temi dominanti. Uno studio del 2011 prende in considerazione, con strumenti asetticamente matematici la ricorrenza di questi termini in 832 discorsi (per un totale di 1.600.000 parole) di quattro dei leader politici dell’epoca: Thorez per i comunisti, Blum per i socialisti, Flandin per gli orleanisti, Tardieu per la destra bonapartista. Gli oratori di destra non parlano mai di fascismo. Parlano di “Italia” e di “Germania”, mai di Italia fascista e Germania nazista. La sorpresa è però che anche il comunista Thorez e il socialista Blum usano pochissimo la parola “fascismo”. Lo fanno solo nel 1934, attribuendo alla sommossa di febbraio l’obiettivo di volere il fascismo in Francia. Poi la parola stessa scompare dal loro vocabolario. Thorez aveva un problema in più: la dottrina dell’Internazionale comunista accomunava il fascismo dei fascisti e dei nazisti al “socialfascismo” dei socialdemocratici. La svolta, il contrordine tardivo, sarebbe venuto solo nel 1936. Per poi essere nuovamente rinnegato quando Stalin nell’agosto 1939 fece il patto con Hitler. Per il socialista Blum il ricorso al lemma “fascismo” si limita alla politica interna. Scompare del tutto nel 1936, 1937 e 1938, gli anni della guerra di Spagna e dell’appeasement di Hitler a Monaco.

 

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Attenzione quindi all’illusione di poter costruire un “campo largo” elettorale, alternativo al “campo largo” delle destre, dando della “fascista” a Marine Le Pen (o, cosa filologicamente, etimologicamente incontestabile, a Giorgia Meloni). Quelli continueranno tranquillamente a spuntare l’argomento dicendo che fascisti non lo sono, non condividono le sbavature dei nostalgici, non vogliono fare i dittatori. L’unica eccezione al momento si palesa paradossalmente proprio nella casa della democrazia occidentale, gli Stati Uniti, dove Trump continua a minacciare che, dovesse perdere le presidenziali, non accetterà il risultato. Sarà perché lì il fascismo vero e proprio non l’hanno mai avuto. Sinora, almeno.
Hanno però già avuto alcuni tratti genetici del fascismo: il disprezzo delle libertà civili, l’odio nei confronti degli immigrati e dei diversi, l’avversione all’eguaglianza, la brutalità nei confronti delle minoranze, una certa allergia al rispetto delle regole, l’insofferenza verso i contrappesi istituzionali, una gran voglia di cambiare a proprio favore le regole del gioco. Oltre a una congenita arroganza e prepotenza, all’idea di essere superiori, eccezionali, rispetto a tutti gli altri. American excepitonalism si dice per l’America, Sonderweg si diceva nella Germania nazista. Cui fa da riscontro un non meno assertivo eccezionalismo cinese. Non esiste invece un eccezionalismo europeo. Abbiamo solo eccezionalismi farlocchi, sovranismi nazionali. Il Make Great America Again (Maga) di Trump si traduce: cresciamo noi, peggio per loro se lo facciamo a scapito degli altri, del resto del Pianeta. Lo slogan opposto sarebbe: abbiamo una sola Terra, siamo tutti sulla stessa barca, siamo tutti umani.

E’ impossibile predire se funzionerà o meno la coalizione elettorale non dichiarata su cui ha scommesso Macron: che al secondo turno gli elettori decidano che il male peggiore, da evitarsi turandosi il naso alle urne, sia una vittoria della Le Pen. Non è scontato. Eric Ciotti, il leader di Les Républicains (Lr) ha rotto per la prima volta il tabù del “mai con l’estrema destra”. E’ un tabù che era stato sempre sacro ai gollisti, dal vecchio General De Gaulle, a Chirac, persino a Sarkozy. Ciotti è stato contraddetto e defenestrato dai suoi. Ma a decidere saranno gli elettori, non le indicazioni di voto. Marine Le Pen è più presentabile di suo padre (che ha rinnegato da tempo). Mantiene le distanze con sua nipote Marion Maréchal, a capo, con Zemmour, di una pattuglia di xenofobi irriducibili. Ha scelto come suo candidato primo ministro e possibile successore alla testa del partito, non sua sorella, o suo cognato, ma un ventottenne dalla faccia pulita, rassicurante, pragmatico: Jordan Bardella, detto “l’italien”
C’è poi il fatto che ai francesi non è mai dispiaciuta più di tanto una cohabitation tra un presidente di un segno e un primo ministro di segno diverso. Il socialista Mitterrand, perse le parlamentari, aveva “coabitato”, tra 1986 e 1988 con un primo ministro di centrodestra, Jacques Chirac, e poi ancora, tra 1993 e 1995, con il centrista Edouard Balladur. Chirac, divenuto presidente, aveva coabitato con il governo socialista di Lionel Jospin. Quel che non sopporterebbero sarebbe un uomo solo, o una donna sola, al comando, senza contrappesi. 
Vedrà il lettore se le analogie tra Francia 1934 e Francia 2024 gli paiono incoraggianti, o inquietanti. Chi scrive, lo sapete, è un patito delle analogie. Me ne viene in mente un’altra, canora. Nei primi anni 80 faceva furore una canzone di Claude Barzotti (figlio di genitori siciliani emigrati in Belgio, quindi un rital, come si dice spregiativamente in argot francese degli oriundi italiani). Si intitolava “La France est aux Français”. Ecco le parole: “Siete ancora qui / A rodere come ratti / Sempre a trafficare / A non fare nulla, a gironzolare / Inquinate la Francia /  Chi vi finanzia? / Sussidio e reddito / Dalle tasche di chi? […] Andatevene. Pussa via / Tornate a casa vostra / Non c’è più lavoro / Ora basta, siamo stufi / Mettete incinte le nostre figlie Abbiamo già dato / La scopa ci vuole / La Francia è dei francesi / Dei francesi, capito?”. Avevano chiesto a Marine Le Pen che ne pensasse de “La Francia è dei francesi”. Lei aveva risposto che non era la sua parola d’ordine, ma di un gruppuscolo ultrà, l’Oeuvre française. “Noi diciamo qualcos’altro: Les français d’abord, prima i francesi”. Se non è zuppa è pan bagnato?

La scomparsa, l’altro giorno, di Françoise Hardy, mi fa risuonare nelle orecchie le parole della sua canzone più famosa: “Tous les garçons et les filles de mon âge / Se promènent dans la rue”… Era andata in onda la prima volta il 28 ottobre 1962, proprio quando la Francia attendeva il risultato del referendum che avrebbe consacrato l’elezione del presidente della Repubblica a suffragio universale. Quel presidente della nuova V Repubblica era Charles De Gaulle. Soppiantava il Chant des partisans. Era un messaggio intriso di ottimismo, sia pure malinconico. Inaugurava non una dittatura astiosa, una resa dei conti, ma il temps des copains, il tempo dei compagni, dell’amicizia, della solidarietà. “Le temps des copains / Et de l’aventure / Quand le temps va et vient”, per dirla con le parole di un’altra canzone della Hardy, Le temps de l’amour. I tempi vanno e vengono. Un pochino di ottimismo, quando ci vuole ci vuole. 

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