Antimemorie di uno scrittore “strano”, che fa riaffiorare terre inabissate

"Spalare merda di cavallo fu la cosa più simile a ‘zappare la terra’ che potessi trovare". Forse per essere scrittori si dovrebbe imparare a spalare merda? Sembra l’inizio di quella strana corsa – la sua opera – che molti hanno confuso per troppo tempo (la colpa è del pregiudizio verso la letteratura di genere) con un bazar di “fantasticherie di fuga”, per dirla, ancora, con M. John Harrison, uno dei più grandi scrittori inglesi viventi, che finalmente ha deciso di raccogliere le sue “antimemorie” in un libro appena pubblicato in Italia dalla neonata casa editrice Mercurio, Vorrei essere qui. E forse è davvero un bazar, ma di quelli che dietro a tappeti e amuleti ingialliti nasconde qualcosa di più, immaginato, suggerito, che mai si palesa. Harrison ha questo che gli altri non hanno. La capacità di sapere dov’è stato, di raccontarlo, di descriverlo. La capacità di generare la patina che vibra al battere dei concetti dell’epoca. Non a caso il “weird”, il suo genere, è, scrive Harrison, un fatto intensamente culturale: “Alla fine il weird non è che lavorare sodo per creare una superficie da cui discendere, nel testo, a tanti livelli interpretabili”. Certo, per riuscire in questa cosa strana, che è la letteratura, serve sopravvivere. Alla propria epoca, alle ribellioni – gli anni Sessanta – e anche al “trucchismo”, l’istruzione scolastica degli anni Cinquanta, che sembra spesso drammaticamente attuale: “La scuola era imparare che ‘imparare’ voleva dire imparare il trucco”. Sopravvivere significa così non imparare il trucco. Harrison non lo ha fatto. Non aggiusta nulla, non ci dice cosa sia giusto fare (o, peggio, cosa sia giusto leggere per capire cosa fare).
 

Poi arriva lui, Riaffiorano le terre inabissate, il romanzo della tarda giovinezza (settantacinque anni), pubblicato in Italia da Atlantide. Capisci cosa significa essere uno scrittore e un lettore senza eroi, di quelli che hanno capito che si deve arrivare, se si crede che la scrittura sia ciò che sei, al punto di poter decidere di cosa sa la tua voce, arrivare al punto in cui “capisci che sei: abbastanza competente da scrivere le cose che volevi scrivere a venticinque anni”. Ecco cosa voleva scrivere Harrison. Tra Londra e le campagne inglesi non emerge davvero nulla. Siamo ancora lì, sulla superficie del tamburello dei concetti, sulla pelle tirata che incassa la genialità dell’autore. Shaw, un uomo che si sta riprendendo da una crisi nervosa, Victoria che non sa quasi nulla della madre che credeva di conoscere. Un manipolo di complottisti che orbitano intorno a un blog in cui si parla di strane creature, simili a uomini, che trovi nell’acqua dei water dei pub del Regno Unito, negli stagni appena fuori città, nei cimiteri. Non è chiaro se siano tra noi, se siano sotto di noi, se stiano tornando. Ricorda l’invasione degli ultracorpi ma senza alcuna tensione bellica, senza nessuno scontro di civiltà. Shaw lo dice alla sensitiva, la sorella di Tim Swann: “Il fatto è che in fin dei conti non vedo dove sono. Non adesso”. E il romanzo si regge su questo. Nessuno sa bene dov’è, qui e ora. Nessuno sa cosa sia quel punto nello spazio e nel tempo, impronunciabile, che non presenta via di fuga. Riaffiorano le terre inabissate è un romanzo del Novecento per gli anni Duemila, fa il verso a Hesse, Musil e Mann, ma con meno parole. Ci dice in cosa siamo immersi, tra cambiamento climatico e verità alla portata del web, e dove si possa fare breccia per provare a capirci qualcosa: su sé stessi, come Victoria e Shaw, possibilmente dove la vita ti dà della merda da spalare.

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